
Il ritorno a casa e l’inizio di nuove avventure “tecnologiche”.
Dopo la telefonata effettuata da Luca a casa, durante il soggiorno a Serifos, decidemmo di terminare immediatamente la vacanza. Fu una decisione sofferta ma presa all’unisono anche perchè la salute è il bene più prezioso che possa esistere. Il papà di Luca, Enzo era ricoverato in ospedale, il mio amico richiamò la mamma Marisa per accertarsi che la situazione non fosse troppo grave ma comunque urgeva tornare in Italia, senza indugi. Ci precipitammo al porticciolo e chiedemmo quali coincidenze c’erano per tornare al Pireo, l’approdo nautico più importante della Grecia. Fummo discretamente fortunati perché ci confermarono che c’era un traghetto che faceva scalo nella profonda insenatura di Livádhion e che poi si dirigeva nello scalo ateniese, la sera successiva. Preparammo i nostri pochi bagagli personali, sgonfiammo il battello dopo averlo sciacquato con acqua dolce, ritirammo il motore marino e il serbatoio vuoto (regalammo i litri rimanenti ad un kirios con motorino), tutta l’attrezzatura subacquea stipata nei borsoni e caricammo abbastanza ordinati, ormai una consuetudine, la nostra Fiat Uno 45 Es con la panchetta posteriore abbassata al pari della soma di un asinello… Pronti per il lungo viaggio di ritorno! Ci congedammo dalla famiglia che ci diede alloggio, persone di un’umanità e gentilezza uniche! Non ci fossimo trovati in questa situazione critica probabilmente non saremmo andati via tanto presto da quest’angolo di paradiso e chissà quante altre “nisos” avremmo visitato. Le Cicladi di quegli anni erano favolose, posti da sogno, trovammo ambienti veri, reali, paesini dove i turisti erano pochi, rari. Facemmo amicizia con la gente locale, vivemmo di baratto; esistenze primitive, incredibilmente autentiche, belle. A Serifos si respirava la magia dell’Egeo, di un mare ricchissimo, poco sfruttato capace di regalare momenti emozionanti e unici. Il nostro non fu un addio, meglio chiamarlo un arrivederci. Negli anni a venire, infatti tornammo ancora in Grecia, separatamente Luca ed io, esplorammo alcune isole a nord, altre Cicladi, le Sporadi meridionali, parte del Dodecaneso, vivemmo altre storie epiche. Ma quella lunghissima vacanza fu un qualcosa di irripetibile. E mentre eravamo seduti ai tavoli della taverna, senza nessuno che spezzasse l’incantesimo del tramonto, ci prese il magone, un grande groppo alla gola. Ce ne stavamo andando via…
L’attraversamento della Jugoslavia. Sbarcammo in Grecia alle prime ore del mattino, all’alba, era novembre, il clima ancora temperato, piacevole. C’era già parecchio movimento sulle banchine, gente, confusione, odore acre. Un po di nostalgia comunque aleggiava nell’aria come un tarlo… Avevamo tirato giù su una sorta di diario qualche nota, una pianificazione di viaggio a grandi linee. L’obiettivo principale era quello di non fermarsi, o almeno farlo solo per effettuare i rifornimenti di benzina e procedere diretti, dalla Grecia all’Italia rapidi, svelti. Seguimmo le indicazioni per Lamia, poi per Larissa, un’arteria stradale abbastanza fluida. Poco prima delle tredici, tenendo una media tranquilla arrivammo allo svincolo di Thessaloníki, e poi dritti per la statale a scorrimento veloce che ci condusse al confine con la Jugoslavia, valico di Evzoni/Gevgelija. Facemmo il pieno in una stazione di servizio prima dell’attraversamento, per poter proseguire senza soste e rifermarsi il più “avanti possibile”. Mostrammo i documenti alla frontiera, i doganieri ci controllarono a vista il bagagliaio della Fiat Uno 45 ES, e dopo una decina di minuti passammo in Macedonia, direzione Skopje/Nis. Memori dell’interminabile viaggio d’andata eravamo consci che era preferibile non fare soste, la nostra utilitaria parca di consumi a media costante e non con piede pesante permetteva un’autonomia di circa 700/800 km; fermata, nuovo rifornimento di carburante sino ad orlo tappo e poi il cambio alla guida tra Lucas e Manolis. Per non addormentarci decidemmo di non portare nulla da mangiare, avevamo però una scorta abbondante d’acqua nel thermos in cui avevamo discolto delle bustine di thè. In Jugoslavia prememmo sull’acceleratore cercando di fare più chilometri possibili, sfruttando la luce solare. Non prendemmo pioggia ma la temperatura era freddina ma mano che penetravamo all’interno della penisola balcanica. Eravamo in compagnia di molti automezzi turchi, lavoratori che si recavano in Germania, tanti veicoli pesanti, tir, insomma bisognava stare con i sensi ben allertati. Mai abbassare la guardia, cedere alle distrazioni perché assistemmo nuovamente a invasioni di corsia, sorpassi azzardati, insomma uno stile di guida abbastanza disinvolto per non dire altro. I rischi di collisione e incidenti drammatici non erano da sottovalutare visto che lungo il tragitto assistemmo a scontri e uscite di strada. Il viaggio attraverso la Jugoslavia si svolse senza intoppi, facemmo rifornimento in Serbia, nei dintorni di Beograd, solita stazione di servizio “da paura”, da ricordare per sempre, poi di nuovo mani sul volante e piede destro pigiato sul pedale dell’acceleratore per arrivare prima possibile a Ljubljana, e da qui al confine triestino. Coprimmo oltre milleduecento chilometri in poco più di tredici ore. Arrivammo esausti, sfiniti, cotti. Le preoccupazioni per le condizioni di salute del padre di Luca, la tensione nervosa di quel lungo viaggio si stemperarono leggermente quando, come un miraggio, entrammo affamatissimi in un bar italiano a fare colazione, doppio cornetto e latte macchiato/cappuccino, un “incontro” molto familiare dopo mesi e mesi di manicaretti greci! Indossavamo ancora abiti leggeri, tipicamente estivi, ci sentivamo alieni tra i clienti al bancone, tra i tavolini, eravamo scuri come dei marocchini ma non percepimmo neppure un brivido di freddo. Luca entrò in una cabina telefonica e chiamò la mamma Marisa, si sincerò dello stato di salute del babbo per fortuna stabile nelle condizioni generali e prossimo alla dimissione. Che sollievo! Dopo un’oretta di relax e nelle narici, sui vestiti ancora il profumo del caffè espresso e del dolcetto appena sfornato risalimmo in auto, tornammo a guidare. L’autostrada verso Milano, circa 450 km, fu un’autentica passeggiata… Giunti a destinazione sotto casa di Luca scaricammo i suoi bagagli, ci stringemmo forte forte e ci congedammo. A me venne voglia di scoppiare a piangere ma cercai di resistere, scese solo qualche lacrima, trattenuta a stento. Fu un addio, perché sapevamo entrambi che non ci saremmo rivisti a breve, si tornava alla vita normale. Da Milano a Torino viaggiai in solitaria; mille pensieri, mille ricordi, un mare di emozioni passarano davanti agli occhi.
Il ritorno alla vita “normale” e l’inizio delle avventure tecnologiche. Il papà di Luca fu dimesso, le sue condizioni di salute migliorano leggermente. L’amico riprese gli studi universitari e per vari impegni ci perdemmo un po di vista, lui residente a Milano, io a Torino. Un fatto però ci accomunò, entrambi faticammo a riprendere i ritmi della città, della vita “normale”. Fu dura, durissima i primi giorni. Le sensazioni di libertà vissute in terra greca tornavano di continuo alla mente. Ci sentivamo qualche volta al telefono raccontandoci qualche storia, rammentando le avventure selvagge trascorse in sintonia. Il mio caro amico Luca si dedicò presto agli sport di montagna, la sua passione principale, un’attività che praticava da ragazzino anche come agonista. Mentre il sottoscritto amava troppo il mare e la pesca subacquea, diciamo che grazie a quei mesi trascorsi costantemente a immergermi scoppiò una passione enorme, mi conquistò del tutto e cercai di viverla al massimo delle possibilità tutti i periodi dell’anno. Il mese di novembre del 1986 coincise anche con la mia incredibile assunzione in ospedale (se comparata ai giorni nostri di estremo precariato e contratti penosi). Ero nel locale dove era riunita la commissione sanitaria che mi aveva convocato, fui chiamato per l’assunzione a tempo indeterminato e chiesi una destinazione di reparto che mi piaceva ma la risposta fu un diniego deciso, la proposta offerta era l’assunzione presso un reparto di malattie infettive, ospedale Amedeo di Savoia. Senza pensarci neanche un secondo li minacciai dicendo che non accettavo e me ne sarei ritornato in Grecia, non scendevo a compromessi. Feci per uscire dalla sala ma sull’uscio fui richiamato, e approvarono il mio suggerimento iniziale e la clinica universitaria, chirurgia specialistica, desiderata. In oltre cinque mesi di avventure pazzesche, mare duro e puro avevo sviluppato un carattere deciso, critico, forte e non avrei mai e poi mai piegato il capo. E che diamine! Dopo qualche tempo, in inverno pieno, il cielo plumbeo e grigio uniforme, le giornate in ospedale scandite dai ritmi dei turni di servizio mi riportarono definitivamente con i piedi a terra. Mi iscrissi in piscina e nell’acqua clorata mi allenavo con gli amici del corso.
Ma in tutta questa “normalità” come un maremoto, come un Melteni forza otto un fuocherello iniziava a farsi sentire, a premere, a uscire allo scoperto… la fiammella della personalizzazione dell’attrezzatura, delle modifiche. Una specie di tarlo, un bisogno progressivo che dapprima sorgeva come dubbio, poi diventava un’esigenza. Come l’anelito al mare, un richiamo incoercibile. Sul mercato iniziavano a essere proposti sempre più prodotti di serie, le grandi ditte e i primi artigiani sfornavano cataloghi allettanti con interessanti novità ma personalmente sentivo l’esigenza di adattare alle mie specifiche esigenze, personalizzare articoli semplici come le alette delle aste, il mulinello, e altri accessori più complessi per poterli sentire “miei”, in toto. Arrivò il primo stipendio, a dire il vero non molti soldi in busta paga ma grande soddisfazione personale e naturalmente il pensiero fu quello di acquistare finalmente la prima muta su misura, una Elios un po più spessa di sezione per immergermi tranquillamente durante l’inverno; successivamente fu la volta di pinne di nuova generazione; arrivò pure il primo arbalete, un Omer T20, e lentamente maturai esperienza anche su questo genere di mezzi d’offesa, tutta un’altra storia dai miei Cressi SL con pesanti aste da 8 e 9 mm…
Il Piemonte a fine anni 80 era ricco, ricchissimo di valenti officine meccaniche. grandi e piccole, quasi a conduzione familiare, se ne contavano centinaia e centinaia, molte costituivano il prezioso indotto della Fiat. Io ero assai curioso, nel tempo libero mi diedi parecchio da fare, mi appassionai alla meccanica e trovai dei tecnici, dei personaggi davvero mitici che mi insegnarono che l’idea, il progetto, l’abbozzo su carta che desideravo poteva essere tramutato in opera concreta. La lunghissima esperienza maturata in Grecia, e prima ancora le molteplici frequentazioni in Corsica mi sono servite per capire l’importanza dei dettagli, la valenza di certe soluzioni che decretavano la cattura dei pesci con un’alta percentuale di successi. Avevo dotato tutte le mie aste lunghe per pneumatico di una doppia aletta contrapposta, appaiata, filante quindi tiravo frecce velocissime, non terminate con un “grossolano” arpione tradizionale, ultra performanti nella trattenuta di dentici soprattutto ma anche di dotti e pesci dalle carni cedevoli. Nella mia testolina in costante fermento c’erano tante idee ma non avevo il “braccio”, e neanche possedevo competenze ingegneristiche, criteri scientifici che motivassero delle scelte. La mia fame era dettata unicamente dall’esperienza diretta e dai ragionamenti che ad ogni bersaglio raggiunto sviluppavo. Dovevo affidarmi ad altri, competenti e bravi sotto il profilo manuale. Il mio amico Adriano fu colui che per primo risolse tutti i miei problemi: mi confezionò a mano una coppia di alette lunghe, fini e aderenti montate all’interno di una scanalatura laterale dell’asta, ricavata tutta a lima. Io esprimevo il concetto, lui, bravissimo nei lavoretti manuali lo metabolizzava e mi realizzava il manufatto. Ricordo che la moglie di Adriano attendeva il compagno a tarda sera, diciamo il più delle volte tardissima, e più di un’occasione scendeva in vestaglia dal quarto piano del condominio sino giù nella mitica “cantina” a vedere se eravamo ancora vivi! Santa donna! Quante notti passate a discutere, a fare esperimenti, a provare nuove soluzioni, a creare! Adriano era geniale nel piegare il lamierino di acciaio inossidabile con morsa e martellino e a “vestire” la tahitiana scaricata a lima così gli portai diverse frecce e tutte venivano rifinite con quelle due terminazioni appaiate che letteralmente sparivano nel diametro frontale di tondini da 8, e anche sulle 7 mm andavano alla grande. Con quelle aste riuscii a catturare decine e decine di dentici senza mai perderne uno, possedevano una capacità di penetrazione e soprattutto di tenuta, fantastica. Non c’era ancora nulla di simile sul mercato, allora, e funzionavano ottimamente. Ma con il tempo, però, sentii l’esigenza di avere maggiore disponibilità di alette lunghe da montare sulle aste: Adriano non poteva più accontentarmi, aveva già fatto un miracolo nei miei confronti. Non mi andava di coinvolgerlo oltre misura e rischiare di fargli saltare il matrimonio! Dopo un po di mesi, tramite il passaparola di amici e conoscenti, viaggi della speranza in varie officine di Torino e provincia trovai vicino a Ivrea un gentile signore, Franco, pescatore subacqueo anche lui, molto esperto in campo meccanico poiché lavorava alla mitica Olivetti. Lo raggiunsi, e quando ci incontrammo gli esposi il mio problema. Gli parlai delle alette lunghe che desideravo replicare in modo costante e numeroso. Gli spiegai che dovevano risultare non ingombranti e a profilo idrodinamico, una incastonata nell’altra, fatte di acciaio inossidabile sottile ma al contempo le volevo lunghe e robuste. Il professionista guardò e rigirò tra le mani la mia asta un po arrugginita ma dotata delle alette artigianali di Adriano (pensate che l’impiego dell’acciaio inox per le aste dei fucili era una rarità negli anni 80, solitamente le aste migliori erano costituite da acciaio armonico, ottimo come caratteristiche meccaniche ma non resistente all’ossidazione per cui si ricorreva alla zincatura elettrolitica), ci fu un lungo silenzio poi arrivò la sentenza. “Si possono realizzare in modo seriale -mi disse- e anche meglio, con le caratteristiche che desideri, ma ci vuole uno stampo apposito”. Gli chiesi i costi esatti e il gentile e premuroso signore, compresa la mia espressione eccitata ma pure ansiosa, cercò di venirmi incontro dicendomi di non preoccuparmi. Mi capiva e mi disse che se non gli avessi messo fretta avrebbe cercato di fare qualcosa di artigianale, lui stesso, per contenere il più possibile i costi. Appresi, infatti, che per realizzare uno stampo da alette professionale ci voleva un esborso economico notevole: si parlava, all’epoca di qualche milione di lire! Fissammo un secondo, un terzo, un quarto appuntamento. Il sogno stava per realizzarsi. Intanto la mia mente friggeva di brutto, i neuroni erano ipertrofici e sia per dare la forma migliore alle alette sia per cercare una soluzione per poter conseguire l’agognato obiettivo cercavo l’intuizione positiva. La trovai nel coinvolgere più persone possibili al fine di suddividere la spesa; chiesi ad amici, conoscenti, compagni di circolo, negozi e reperii le risorse. Franco Gallini, si proprio lui, il padre di Simone, attuale titolare dell’azienda Sigal Sub, a quei tempi un ragazzino, realizzò dopo circa un anno, uno stampo in metallo, completamente a mano, un autentico capolavoro, e le mie alette soprannominate “Dentì” nacquero copiose, tutte uguali, performanti, magnifiche. Fu un successo! Le peculiarità tecniche/funzionali erano poche ma interessanti, innovative: innanzitutto avevamo concordato un lamierino in acciaio inox Aisi 304 sotto il millimetro di spessore, esattamente 7/10 di mm, ma il segreto era la piega a 90° delle spalle laterali. Questa soluzione suggeritami dal signor Franco irrobustiva enormemente l’aletta “Dentì”, e la faceva accoppiare con la gemella in modo geometrico perfetto. Testata questa aletta non si piegava neppure sottoposta a un carico di decine e decine di chilogrammi. Esile ma forte. Poi chiesi e ottenni l’apice della coda acuminata: prerogativa che faceva aprire l’aletta o la coppia di “Dentì” anche parzialmente nel corpo del pesce non trafitto da parte a parte. Erano lunghe quasi 80 mm, aperte, a coppia, garantivano oltre 155 mm di superficie utile di trattenimento! Questo lavoro fu il “semino” nel campo fertile, aprì la via ad altri interventi, negli anni successivi. Avventure tecnologiche, certamente, poiché all’epoca, parlo di quasi quarant’anni orsono, tanti accessori non c’erano, non esistevano e lo spazio per la creatività poteva espandersi, ma bisognava darsi da fare, parecchio, non dormire mai sugli allori. E come mi disse un grande amico: “Manu quando cerchi qualcosa di innovativo non copiare, non riferirti a progetti già sul mercato. Parti da un foglio bianco, crea, ingegnati.” Parole che non mi sono mai dimenticato. E dalle necessità in pesca, dalle avventure vissute ho sempre cercato questo leit-motiv nella personalizzazione, nell’adattamento massimo dell’attrezzo alle mie specifiche esigenze. Gli anni 90 erano alle porte e per il sottoscritto si stava aprendo un decennio da brivido, irripetibile. Con le alette “Dentì”, e qualche tempo dopo con il mulinello “Manù” (telaio metallico mono strutturato in lega di titanio e bobina a basso peso specifico con efficace sistema anti parrucche) riuscii a realizzare delle catture da sogno, presi la mia prima grande ricciola e in seguito tanti altri bestioni, ciliegina sulla torta un tonno di oltre un quintale, l’apoteosi…
