
Dall’aria alla gomma, e ritorno. Anni 1988/89. 13° episodio.
Uno dei più grandi e radicali cambiamenti realizzati nella mia gioventù fu il passaggio dalle armi ad aria a quelle a propulsione elastica, chiamiamolo scherzosamente “il battesimo della gomma”! In quegli anni, parlo di fine anni 80, la diffusione degli arbalete non era ancora iniziata in modo evidente e capillare. C’è da constatare però che il fermento delle ditte era notevole e sulle pagine delle riviste di settore, tra cui i primissimi numeri di PescaSub, si iniziava a parlare sempre più frequentemente di questa particolare gamma di fucili. Personalmente avevo avuto modo di vederli in azione nei primi periodi di frequentazione corsa, e successivamente nelle prime battute effettuate lungo la Costa Azzurra e lungo la Francia meridionale, a fine anni 70, inizio anni 80 con l’amico Marco. I nostri cugini d’oltralpe usavano in pratica solo arbalete e infatti nei negozi di attrezzatura subacquea locali, che mi attiravano già parecchio, si potevano ammirare diversi modelli quasi tutti caratterizzati da impugnatura posteriore a pistola, affusto tubolare di alluminio, asta tahitiana da 6 mm, gomme imboccolate da 16 mm di diametro. Il mio compagno di avventure Mauro ne acquistò uno, credo di ricordare fosse un Cavalero Champion, lunghezza intorno ai 90 centimetri: suscitò nel nostro gruppetto parecchia curiosità visto che era la prima volta che potevamo toccarlo con mano, fraternizzare con questa “antica” forma di propulsione. Un fuciletto semplice come livello costruttivo, simile a quello di una balestra terrestre, semplificando il concetto. Tutta un’altra storia rispetto alla “complessità” di costruzione di un fucile ad aria. Lo provammo a turno curiosi e devo ammettere che la prima volta che sparai con questo arbalete francese oltre a trovare subito il feeling, rimasi di stucco per altri dettagli innovativi. Abbastanza leggero da trasportare, equilibrato, insomma una grande differenza rispetto ai pesanti SL con aste da 7/8/9 mm che in quel periodo usavo abitualmente! Ma l’aspetto più intrigante era relegato al tiro, al piacere del puntamento, veramente dissimile rispetto a un pneumatico. La linea di mira aperta, rilevabile lungo l’asta e spontaneità nell’allineamento pulito del bersaglio, si poteva guardare il pesce mentre si sparava. Poi la meccanica con un grilletto dallo sgancio dolce, un rumore completamente differente allo scoccare della freccia con uno schiocco al posto di un “tump” forte, secco, intenso. Il tiro veloce nel primo tragitto, sensazione bruciante nell’azione di prelievo. Insomma tutta un’altra modalità d’azione, di conclusione, una notevole differenza oggettiva. Devo ammettere che sin dal primo bagnetto ci presi gusto, mi divertii un sacco nella cattura di qualche cefalo e qualche branzinetto lungo le dighe foranee della Liguria! Glielo restituii dopo un paio di uscite e siccome le risorse economiche da giovanotto erano quelle che erano ripresi a pescare con i miei fedeli Cressi SL. Un giorno, qualche anno dopo, mi trovavo in campeggio, in Corsica, e il fato, volle farmi conoscere un rappresentante di prodotti subacquei tra cui i prestigiosi arbalete della Omer. Valerio Grassi, il creatore di questi nuovi strumenti d’offesa era un personaggio famoso, conosciuto dagli appassionati: oltre alle bellissime aste in acciaio armonico aveva inventato un arbalete speciale, fatto interamente in Italia: un’opera d’arte, la serie Omer Professional T 20. Io, come tanti altri ragazzi, lessi su una pagina pubblicitaria di questo nuovo fucile, ne rimasi affascinato, e l’occasione di riuscire a comprarlo a prezzo scontato mi permise di averne finalmente uno; presi il T 20 96. Lo rimirai a lungo e facendo il raffronto con il primo arbalete che provai qualche anno prima mi resi conto che c’era una sostanziale differenza qualitativa, un abisso! Che livello costruttivo! Che immagine di robustezza ed efficacia balistica trasmetteva quel gioiellino! Lo testai per qualche mese, in Liguria, imparai a manovrarlo spostandolo, facendo leva dal calcio come mi aveva consigliato un agonista francese; riuscii a capire come dovevo stirare quelle belle gomme progressive che inizialmente trovavo troppo dure da tendere. Ma scoprii presto che il territorio d’azione di quell’arbalete, sostanzialmente assai più lungo del mio SL 95, e meno occultabile per via degli ingombri del “fuori tutto” reale non erano le scogliere frangiflutti con mare mosso bensì gli spazi aperti, l’acqua pulita. Gli elastici chiarissimi di puro lattice da 20 mm di diametro imboccolati con ogive inox, il fusto in Ergal ricoperto da un involucro di poliuretano nero, la lunga e sottile asta tahitiana: l’arma esercitava un fascino incredibile in qualsiasi pescatore subacqueo lo osservasse! L’anno successivo tornai in Corsica con Walter, un appassionato conosciuto a Torino, diventammo amici e iniziai a condividere diversi viaggi di pesca negli anni a seguire. Ci portammo appresso l’Omer T20 insieme alla classica santabarbara dei pneumatici, lo provammo sui dentici, sulle corvine fuori tana, su tante altre specie ittiche: una meraviglia sparare vedendo il muso del predatore bello pulito, l’immagine del pesce traguardato nel profilo della testata! Tutto bene, vari colpi portati con grande gusto, grande precisione, ma in qualche situazione ci rendemmo conto che il tiro del pneumatico con asta tahitiana da 7 mm era superiore: consentiva di trapassare e mettere sul nylon anche dentici di quattro, cinque chilogrammi mentre con il Professional T20 e l’asta tahitiana da 6 mm sui tiri al limite della gittata non sempre c’era sufficiente velocità e forza d’urto a permettere questa opzione. Molti dentici tirati sul lungo rimasero infilzati sull’asta e li recuperammo fortunosamente. Persi un bel pescione e analizzata l’inattesa debacle reperii un paio di grosse squame incastrate sulla sommità dell’aletta segno che l’energia cinetica su certe distanze era agli sgoccioli e non mi cosentii di terminare l’operazione fruttuosamente. Un paio di pesci sparati di muso furono colpiti “in ritardo”, a metà corpo e comunque non spiedinati; addirittura, su una secca di Galeria, ne presi uno bello grande nel troncone di coda tirato mentre si stava girando di scatto, rapidissimo. Compresi dopo vari test sul campo che l’Omer Professional T 20 96 offriva il meglio di se su distanze medie dove esprimeva un tiro davvero godurioso e infallibile. Insomma l’arbalete aveva sicuramente tanti pregi ma anche dei difetti rispetto le prestazioni balistiche esuberanti di un fucile ad aria. Ma i punti a favore della propulsione elastica erano una sorta di magia, stregava il fatto di poter sparare con una qualità di puntamento nettamente superiore ad un sistema dove l’asta lavorava all’interno di un cilindro, gestire un fucile leggero per ore e ore senza problemi. Nel caso del Professional T20 96 la tahitiana correva sopra l’affusto e quando miravi avevi una qualità di visuale meravigliosa, nulla da fare! In autunno, trasportato dall’entusiasmo decisi di acquistare un secondo arbalete, l’Apache Cressi Sub. Anche per questo prodotto fui attirato dalle pagine pubblicitarie con lo strepitoso campione Renzo Mazzarri vincitore del secondo titolo mondiale a S. Teodoro che usava queste armi! Presi un Apache 75 che mi accompagnò fruttuosamente per tutto l’inverno. Allestimento leggero rispetto il T 20 ma perfetto per la pesca in bassofondo, nella risacca. Una stagione invernale contrassegnata dalla cattura di molti branzini. Ero così contento che a Natale con i risparmi accumulati riuscii a prendere anche due misure più lunghe, sicuro della scelta. L’Apache 90, di serie, andava benissimo, ma quando portai il lungo 110 nelle acque della Corsica non ebbi i risultati sperati. Stesse carenze balistiche riscontrate con il 96. Provai a sostituire tipo e diametro di gomme, calibro e lunghezza delle aste, feci innumerevoli esperimenti con pezzi di diverse case (intercambiai testate, impugnature, affusti) ma mi resi conto che più di tanto non ottenevo. Il punto fermo che riuscii a identificare fu che nelle misure medie e medio lunghe riuscivo a pescare bene con gli arbalete, nelle lunghe, assai più difficili da mettere a punto, mi trovavo meglio con i corrispettivi ad aria. La cosa simpatica e per me strepitosa è che proprio l’impiego assiduo e caparbio degli arbalete permise di raggiungere obiettivi insperati. Lo studio e le prove condotte con questi strumenti d’offesa nuovi mi aprì la mente e trasferii alcune idee, alcuni concetti anche alle armi pneumatiche come l’asta tahitiana il più possibile filante e la ricerca degli accessori con il minor attrito possibile (scorrisagola e calamento). Gli anni 90, sotto questo profilo, furono un susseguirsi bestiale di lavori artigianali, di spasmodica ricerca sui materiali e loro applicazioni, il reperimento di officine meccaniche e abili tornitori/fresatori su metallo e plastiche. Ma la dicotomia aria/gomme non vide vincitori e perdenti. Infatti con la base dell’Apache, l’impugnatura, nacque qualche anno dopo lo Slaks (presentato con l’articolo Pescasub&Apnea numero 99, dicembre 1997). Un arbalete “concept” nel senso che introdussi alcune modifiche, senza possedere know-how, grandi basi scientifiche, ripresi poi da varie ditte negli anni a seguire. Eccoli: gomme montate in asse con l’asta vincolate su una innovativa testata artigianale in lega di alluminio Ergal sgrossata a fresa nei piantaggi e nelle sedi boccole poi rifinita completamente a mano per un discorso di risparmio di costi; per limitare gli attriti supplementari ricavata lungo l’affusto una guida per l’asta strutturata da soli due piani di appoggio a livello della testata e della porzione antistante la meccanica di aggancio, costruiti con resina epossidica bicomponente; fusto in lega di alluminio da ben 2.5 mm di sezione, inflessibile, dotato di grande massa ma reso neutro, bilanciato e gestibile tramite delle sagome di materiale espanso e un rivestimento in neoprene; scatola di sgancio con innesto calibrato bilaterale per codolo, leveraggi rivisti con sostituzione molla sul dente; mulinello artigianale con bobina tornita dal pieno in materiale plastico a basso peso specifico quindi galleggiante.
Lo Slaks Manù era un 115 come lunghezza nominale, lo usai sia con aste tahitiane da 7 sia da 6.9, 6.85, 6.65. 6.5 mm (grazie ad un amico, Vincenzo, che con macchine utensili centerless mi rettificò decine di aste per permettere di eseguire test in mare con tahitiane di svariati diametri): Ci presi pesci importanti tra cui la mia prima grande ricciola, ebbi grandi soddisfazioni anche con la propulsione a elastici. Vi riporto, per dovere di cronaca, integralmente, lo stesso finale dell’articolo di cui sopra scritto circa 28 anni orsono.
“A questo punto vi sarete chiesti il perché del nome Slaks. L’idea è venuta dopo il rumore prodotto dalla coppia di gomme da 20 che un denticione di quasi nove chili ha ascoltato per l’ultima volta nel mare della Corsica”.
