AMARCORD – Ep. 8

EP_8

SANTORINI, 1986. La bellissima. Ottavo episodio.

Dopo il soggiorno a Ios, da ricordare per il mix tra eccessi mondani e fondali poco sfruttati e ricchi di pesce, il carburante acquistato al mercato nero e razionato decidemmo di partire alla volta della “famosa” Santorini. Già all’epoca, metà anni 80, la grande e particolare isola dell’Egeo era una meta turistica assai conosciuta. Ricordo, come fosse ieri, l’impressione che Luca ed io ci scambiammo alla vista di nisos Thíra: stupore e meraviglia, un ensamble da brividi! Da lontano, sul traghetto, si materializzò sulla destra un’altissima falesia rocciosa disposta a semicerchio che si staccava da un mare blu cobalto, una immensa parete verticale decorata da stratificazioni orizzontali di diverso colore. E in cima una cittadina formata da una lunga successione di casette bianche disposte sull’orlo del precipizio! Uno spettacolo indimenticabile, un’isola bellissima! Un colpo d’occhio fantastico, pareva un dipinto! Ne avevamo sentito parlare nelle nostre peregrinazioni, e l’ultima fu l’ereditera veneziana che era estasiata da quest’isola ma dal vero Santorini è un’isola che bisogna visitare, emoziona profondamente. Sbarcammo e disponendo delle cartine nautiche puntammo verso sud. Trovammo ospitalità nei pressi di Akrotiri, molto vicino a un luogo dove si effettuavano scavi archeologici importanti, il cantiere era in attività, tutto pieno di impalcature e teloni a copertura, iniziati a fine anni 60. Si trattava di una cittadina antichissima sepolta dalle ceneri, un po come le nostre Ercolano e Pompei. Oggi sappiamo che quella scoperta è stata catalogata come tra le più importanti nella storia dell’archeologia mondiale poiché sono state portate alla luce abitazioni con bagni interni e acque correnti, un avanzato sistema idraulico di fognature, uno dei primi esempi di ingegneria urbana della storia!

Appena sistemata la stanzetta vicina al mare, pulita e decorosa, scaricati i bagagli optammo per fare un giretto turistico, destinazione Ancient Thíra, la cittadina principale abbarbicata a gradoni sull’abisso. E fu la volta che al collo c’era finalmente la reflex Olympus OM-1 con pellicola diapositiva, una delle rare volte che la tirammo fuori dalla borsetta imbottita. Mentre percorrevamo le stradine ricche di negozietti con souvenir e prodotti tipici, sacchi di spugne, gioiellerie con esposizioni generosissime di monili d’oro (situazione anni luce differente dalle “dimesse” isolette greche visitate qualche settimana prima) ci accorgemmo di abitazioni e locali costruite a terrazza, letteralmente affacciate al precipizio. Gli spostamenti nelle viuzze erano fatte con asinelli. Ma il denominatore comune di Santorini erano i panorami, la scenografia dei luoghi, la vista del cono vulcanico a centro baia, nisos Néa Kamméni, i colori del sole sui tetti blu, i contrasti dei colori. E la sera, a un tavolino di una taverna tipica ci godemmo un tramonto indimenticabile, il calasole sulla cosiddetta Caldera.

L’antica Atlantide? Avevamo letto qualche cenno storico su Santorini, l’isola che circa 1500 anni avanti Cristo si disintegrò per un’eruzione vulcanica esplosiva, violentissima. E della fantastica teoria che proprio quest’isola fosse Atlantide, l’isola mitologica descritta da Platone. In effetti il colpo d’occhio offerto dall’osservazione del golfo, dall’abitato di Ancient Thíra ispirava mille pensieri, e la mente vagava tra mito e realtà, ipotesi e concretezze. Davanti a noi, o meglio sotto la nostra posizione si vedeva una sorta di anfiteatro con un’isoletta nera che era ciò che restava del cono vulcanico, al centro. Intorno, come se si trattasse di un enorme cratere, lo sviluppo dell’isola con verso sud la piccola nisos Aspro, a chiudere il semicerchio un altro tratto roccioso, nisos Therasia. Immaginate un’esplosione che abbia disintegrato un’isola grande e sia rimasto solo più una sorta di anello con una porzione alta da un lato e una bassissima dall’altro, in una circonferenza ampia. Doveva essere davvero vasta, in passato, ospitare civiltà evolute, ora Santorini lascia traspirare questa aurea mitologica, con la popolazione abbarbicata sulla montagna, sul bordo dell’orlata. Chissà se Atlantide sia davvero esistita, è bello sognare, quando ci siamo immersi la prima volta a Santorini ci siamo cullati in un mare profondo, in vari tratti dell’isola imperscrutabile, misterioso, mitico. E poi, proprio vicino a casa la presenza degli scavi, con casette dissotterrate da una coltre di depositi lavici che faceva intravedere i resti di una civiltà particolarmente evoluta. C’erano tutti gli ingredienti per cullarsi in fantasie antiche, perse nei meandri del tempo, dell’antichità.

La pesca in profondità. Santorini si rivelò ben presto un hot spot particolare. Nella nostra ricerca quotidiana trovammo soprattutto franate abissali. In vari punti dell’isola c’erano punte e capi che precipitavano a quote proibitive a pochi decine di metri da riva. E dalla lettura della carta nautica tutta la parte interna al “cratere”, quella più affascinante, presentava batimetrie elevatissime. Facemmo anche puntate su tutto la costa sud, molto più bassa e regolare ma l’emozione di immergersi dentro la “Caldera” erano uniche. Ricordo che un giorno, pescando sotto l’alta falesia rocciosa, mi feci portare al traino quasi appiccicato a riva perché non riuscivo a vedere il fondo. Tenevo il fucile stretto in mano, la paura di perderlo e smarrirlo in quel baratro era reale, un poco angoscioso, a dire il vero. Urlavo a Luca di avvicinarsi sempre più, stizzito, infastidito e credendendo che l’amico non mi ascoltasse finché, a pochi metri dalla roccia, davanti a una microscopica spiaggettina incastonata tra le rocce a picco, mi trovai dinanzi, di botto, un’impressionante discesa, una pendenza del fondale quasi verticale della stessa spiaggia! Un incredibile scivolo di sabbia nera come la pece, e rari steli di alghe qua e là che spezzavano l’uniformità della caduta quasi verticale nell’abisso tetro. Un’immagine che ancora oggi, ricordandola bene, visualizzo nella mente, davanti agli occhi con un po di timore reverenziale. E giorno dopo giorno prendemmo fiducia, e iniziammo a effettuare discese sempre più profonde alla ricerca di bei dotti, grossi serranidi che abitavano lungo progressioni di pietre che si fiondavano a oltre 150 metri di quota a 40/50 metri dalla costa. Stando in mare dalla mattina alla sera l’unica cosa che non mancava era il fiato, la durata delle apnee. In una di queste meravigliose frane, pietra scura, Luca ed io pescammo per la prima volta con il sistema della zavorra mobile, sagolata al pallone. Premetto che non forzavamo mai le quote operative ma il scendere a 30 e passa metri con le pinne in plastica recuperandosi la cintura di zavorra ad ogni tuffo si dimostrò molto faticoso soprattutto dopo ore e ore d’acqua. Il mare di Santorini era trasparente, caldo, la visibilità verticale non aveva ostacoli, il nostro grado di allenamento ottimo. Pescavamo in coppia, uno controllava l’altro, e a turno recuperavamo la cintura. Avevamo trovato un picco di massoni che spuntava solitario, fondissimo. Vidi Luca scendere, scendere, i 35 metri di sagola restarono tesi, sganciò e dopo altri metri di discesa sentii finalmente il colpo secco del pneumatico. L’amico ha sparato! La risalita fu abbastanza lunga e il fucile abbandonato lungo il decorso della frana si individuava solo per il calcio bianco, un puntino quasi impercettibile che si stagliava nel blu notte dell’Egeo. Chiesi al mio compagno a cosa aveva tirato e lui candidamente mi rispose che aveva visto una grossa cernia in candela ma non era stato preciso a colpirla in testa con il 95, quindi si era intanata! Lì per lì ci scambiammo frasi poco amichevoli, rimproveri vari, (anche il sottoscritto qualche giorno prima avevo sganciato a fine sagolone teso e Luca dovette recuperarsi la zavorra con un bel po di fatica e successivi improperi…) ma alla fine facemmo pace e organizzammo il da farsi. Mi preparai per bene e iniziai la discesa, con la cima fissata tramite un moschettone a un piombo della cintura. In quel punto c’erano tra i 35 e i 40 metri di batimetrica, una quota impressionante anche in considerazione della nostra attrezzatura dell’epoca, infatti calzavo le pinne con pala in plastica rossa della Dessault. Ma i polmoni erano perfetti, la giovinezza e la lunga vacanza di pesca aiutavano. Arrivai sul posto, una gran fortuna compensare senza toccarsi il naso, mi liberai della cintura piombata e raggiunsi l’SL che svettava verso la superficie, collegato a un sagolino trecciato bianco che spariva tra le pietre. Mi affacciai sul bordo della frana, accesi la torcia e mi resi conto che il pesce era impossibile da lavorare a quelle quote, si vedeva solo la coda, neppure l’asta da 9 mm era individuabile! Estrassi il coltello, recisi la sagola, e lasciai libero il pneumatico. Riemersi dopo una lunga apnea, e recuperai il fucile. Riflettemmo molto su quella azione al limite, di altre discese troppo fonde, la sera, e ci servì di lezione: le limitammo e fu un monito per il futuro. Poi arrivammo alla conclusione comune che non c’era divertimento a fare immersioni cosi impegnative dove non c’era tempo per ragionare, per impostare una tecnica. Un colpo e dovevi tornare su. Non era più un’attività sportiva per noi.

La secca dei miracoli. Trovammo un piccolo porticciolo vicino a casa, un riparo per barche da pesca professionali, locali. Davanti c’era una tipica taverna, chiesimo il permesso per tenere il nostro gommoncino legato alla loro banchina di legno e lo ottenemmo subito. Una situazione favorevole, comoda, rapida per noi. L’unica cosa da fare era ricordarci di portarsi dietro una tanica per i rifornimenti di benzina quando tornavamo la sera, belli stanchi. Tutto qui. Un altro aspetto che ci fece ben volere dalla popolazione locale, e dai pescatori del posto, consisteva nel regalare il pesce. Ne portammo tanto a riva e c’era una gran festa, tutte le volte. In cambio laute cenette, e degustazioni di prodotti tipici. Dovete sapere che in tutte le isole greche che frequentammo sino a quel momento non c’era grande disponibilità di pesce fresco. Più che altro polpi, minutaglia: incredibile se confrontato alla ricchezza dei posti! Santorini si dimostrò alla stregua delle altre isole visitate, forse più povera ancora: poco pesce nelle taverne, poco a disposizione per chi lo voleva mangiare e in questa isola prettamente turistica la richiesta era sicuramente molta. Dopo una settimana di divertimento assoluto, constatammo che sempre più curiosi ci aspettavano al ritorno delle uscite, al tramonto. Non era un problema, anzi, ma la nostra euforia, i carnieri un po pesanti potevano suscitare invidia in qualche persona, chissà. La dea bendata ci sorrideva e un giorno, seduti a cena nel locale abituale, davanti al mare, fummo avvicinati dal figlio del gestore, un pescatore con le reti. Ci prese da parte e con il padre ci dissero che se gli avessimo portato del pesce, non importava quanto ci avrebbe indicato una secca non segnata sulla mappa, un banco mitico. Nessuno la conosceva bene. Lì per lì rimanemmo dubbiosi, con Luca ci fu una lunga discussione, la curiosità prese il sopravvento e accettammo. Il signore tornò con un foglio di carta e ci mostrò dei segni, dei rilevamenti a terra. Confrontammo la piantina con la nostra carta nautica, cercavamo dei riferimenti topografici un po più precisi. Il posto era localizzato lungo la parete interna della Caldera, la nostra mappa non mostrava nessuna risalita, anzi, segnava quote a tripla cifra all’altezza dei simboli mostrati dal kirios greco. La mattina seguente, di buon ora uscimmo e per tutta la mattina, e buona parte del pomeriggio passammo a setaccio l’area indicata. Paperino lungo, corto, su e giù lungo costa, zig zag, niente di niente. Non trovammo nulla, nessuna secca, nessuna pietra, nessuna rimonta, solo blu intenso, mare profondissimo davanti alla spettacolare parete sovrastata dalle abitazioni bianche e blu. Esausti ci dirigemmo verso nisos Néa Kamméni, a fare una visita alla bocca del vulcano. Sotto i piedi pomice; in acqua, a filo roccia, mare bollente e pietra “arrugginita”, rossastra a raso superficie, forse per la componente ferrosa del materiale vulcanico! Ricordo che toccai l’acqua di raffreddamento che “pisciava” a lato del fuoribordo sentendola caldissima. Tornammo mesti alla base – pazienza – oggi abbiamo fatto i turisti- ci consolammo a vicenda. La sera ci confrontiamo nuovamente con il tizio, e gli mostriamo il percorso fatto, attendiamo di sapere dove abbiamo sbagliato. Tra l’altro perdere tutto quel tempo non era stata una cosa piacevole. Non disponevamo di ecoscandaglio, di GPS, a quei tempi, quindi era un po come trovare un ago nel pagliaio, probabilmente. Invece il pescatore insistette e ci disse che ci eravamo passati sicuramente sopra! Dovevamo allineare bene le mire a terra, ce le rimostrò sul pezzo di carta, con insistenza. – La secca è posta longitudinalmente alla costa, qualche centinaio di metri fuori, non è vasta e la striscia rimonta nel punti di massima altezza intorno alle 12/13 braccia – ci disse incoraggiandoci. La voglia di trovare questo nuovo hot spot era una sfida fortissima per noi due e l’enorme passione, il desiderio di trovare un luogo mitico ci fece ripetere il tentativo. Il giorno seguente ci staccammo dal porticciolo verso le 8 del mattino. Dopo una lunga navigazione ci trovammo al cospetto della parete a strapiombo. Una mira consisteva in una roccia che di profilo tagliava un tratto di costa di colore chiaro, l’altra era l’allineamento tra un pinnacolo e un pietrone subito dietro. Con pazienza puntammo la prua del gommone verso il largo e cercammo di osservare nuovamente e bene le mire riguardando entrambi i riferimenti. Io ero al traino in mare, Luca guidava. Dopo un po’, dopo circa una mezz’oretta di paperino gli chiesi se eravamo giusti come traguardi e mentre ricacciai la testa sott’acqua mi parve di notare, improvvisamente, qualcosa. Pensai di avere le allucinazioni dopo ore e ore di pupille aperte nel blu indaco. Nella vastità di quel tratto abissale forse scorsi un leggero contrasto luminoso. Dissi a Luca di fermare immediatamente il motore, abbandonai il traino e mi immersi. Poco oltre il gommoncino in un volo a mezz’acqua individuai la stretta e piccola risalita, e poi un abbozzo di cortissimo plateau roccioso subito appresso! Riemersi, urlai dalla gioia, una soddisfazione indicibile, l’avevamo trovata, finalmente!!! Continuai a seguirla nel chiaroscuro e dopo un brevissimo tragitto scorsi una specie di sommo poco più svettante. Il cappello era poco sotto i 20 metri, si trattava di una lama, di un accumulo di pietra chiara, uno spuntone nel nulla. Subito dopo un canyon, una frattura a V profonda qualche metro più in giù, fondale nero di mangianza a coprire quel posto speciale. Più in fuori, da tutti i lati, l’abisso della Caldera. Mi feci passare da Luca l’ancora, la portai direttamente a mano per depositarla a fondo, la misi dentro un buco, le marre ben piazzate. Tornai in superficie, e mi feci passare il Cressi SL 95 allestito con la tahitiana da 7 mm in previsione di trovare pesci di passo. Una preparazione accurata e feci il primo tuffo. Trovai una scalettatura a lato del cuneo abissale giusto un buco per semi nascondermi nella corrente sostenuta. Dopo alcuni secondi fui circondato da un branco di denticioni da infarto! Il primo tiro ne fulminai uno oltre i nove chili, centrato in testa. Il secondo cadde trafitto pochi minuti dopo, di peso analogo. Nel terzo tuffo dovetti cambiare appostamento, non troppo lontano, e un ultimo esemplare poco sopra i sei chili fu recuperato senza difficoltà. Tre tuffi, tre pesci da spettacolo. Ma soprattutto un divertimento assurdo! Luca intanto mi disse che mentre mi osservava in posizione leggermente defilata scendere aveva visto un grosso pesce spada passare poco sotto la superficie! La rimonta a quote apneistiche pescabili, per noi, sarà stata in totale non più di una cinquantina di metri, ma il bello doveva ancora arrivare… Ci voltiamo, il Mirage 3.10 è sempre lì, ci segna la posizione, ma basta fare un poco di nuoto pinnato, spostarci di qualche metro che si perde il riferimento ottico, sotto di noi non si osserva nessuna pietra, solo il nero della profondità abissale. Incredibile. Ritorniamo poco più indietro e ritroviamo il ciglio. Quasi netto. Un orlo biancastro nel blu notte. In pratica una falda che spunta dal nulla, un sito spaziale. Facciamo un paio di voli di planata e scopriamo sulla caduta in fuori una famiglia di cernioni in candela, qualcuno davanti altri scalzati dietro, ne abbiamo contati una quindicina, almeno! Sembrano relativamente tranquilli e infatti un bellissimo esemplare è trafitto mortalmente dall’asta da 9 mm dell’SL 85, diventa bianco subito, non si è accorto di nulla, poverino. Ma dopo il colpo una serie di scodate assurde sconvolge la secca. E a quel suono indimenticabile legai subito alla mente le parole di Paolo Bonassi che in negozio parlando di catture di cernie raccontava che quando sentiva i colpi di coda alzava la testa immediatamente e si guardava intorno per individuare dove si intanavano le altre. E qui, in questo posto magico e assurdamente ricco di ogni ben di dio non c’erano solo cernie brune, inquadrai dei dotti enormi, e altre cernie lungo la cigliata! Una moltitudine di serranidi! Eravamo sopra la secca dei miracoli, un posto vergine mai visitato da qualche essere umano, senza dubbio! Che fare? Avevamo a pagliolo già quattro, cinque pesci di mole. Luca compì un atto di ingordigia e sparò a un cernia di oltre ventiquattro chilogrammi, fulminandola in testa nuovamente con l’SL 85. Catturammo altri serranidi, dei dotti, delle corvine giganti, il quarto denticione. Un eccesso, sicuramente ma l’intento samaritano era quello di far contenti i signori che ci avevano fatto scoprire un’autentico paradiso subacqueo, un hot spot mitologico. Una ricompensa sicuramente oltre le previsioni, straordinaria. Tornammo piano piano verso l’approdo di Akrotiri, non si riusciva a planare, i calzari sopra un pagliolo dove non ci stava più neanche un acciuga tanto era il carniere stipato all’inverosimile, e il 15 cavalli Jhonson borbottava sornione, sicuramente non potevamo forzarlo. Il pescatore greco ci aspettava sulla battigia, ci raggiunse prima di sbarcare e alla vista di quella spaventosa pescata prima barcollò poi si mise a esultare come un bambino, eccitatissimo. Arrivò il padre, gli amici, gli amici degli amici, tanta, troppa gente. Il telo di juta copriva un po il pescato ma poco, troppo poco. Inutile dirvi che fummo quasi portati in trionfo e la sera festeggiamo sino a tardi. Grazie a loro, a queste persone avevamo potuto pescare in un posto unico, sconosciuto, una rimonta da brividi. Andammo a dormire felicissimi, ma stravolti dalla fatica, anche. In piena notte, forse le due o le tre ci svegliammo di soprassalto. Udimmo dei colpi forti sulla porticina e il titolare della taverna che ci chiamava per nome: Lucas, Manolis! Assonnati come non mai scendiamo e gli apriamo la porta. Per farla breve ci dice “ tomorrow big problem”, ci avvisa che è meglio allontanarci prima faccia giorno, non tirava di certo aria buona per il mattino successivo. Siamo frastornati, mezzi fusi, non comprendiamo bene la faccenda ma arriviamo alla conclusione che c’è qualcuno troppo invidioso deciso a far scoppiare un casino. Dobbiamo prendere una decisione, subito. Porca vacca! E che fare, adesso? Decidiamo di ritirare tutto. Ci vestiamo in fretta e furia, prepariamo i borsoni e giù a salpare il gommoncino. Il motore messo nel cofano, il serbatoio vicino, il battello legato sul portapacchi, gonfio. Kirios ci dice che al porto ci sono traghetti a tutte le ore. Lo salutiamo abbracciandolo stretto stretto. Arriviamo alla banchina, in effetti verso le quattro e mezza c’è un traghetto che salpa per Milos, optiamo per questa destinazione non preventivata. Ci congedammo dall’isola vulcanica con un ricordo indelebile, e una lezione di etica sportiva da non scordarsi, di certo.

Le armi. A Santorini prendemmo molte cernie e un ruolo fondamentale lo ebbero i miei fucili, e gli accessori a corredo. Tutti pneumatici serie SL della Cressi Sub acquistati dai miei primissimi datori di lavoro, i fratelli Bonassi. Il primo, il micidiale fucile da cernie era il 95, in quel periodo storico il fucile più lungo della casa ligure. Seguendo i consigli di Paolo Bonassi, uno dei miei mentori, e del papà di Luca, pescatore subacqueo di vecchia leva, ci procurammo diverse aste da 9 mm, in acciaio zincato. Qualcuno potrebbe pensare a un diametro eccessivo ma posso garantirvi che questi dardi pesanti, una 9 mm da 105 cm pesa circa 520 grammi, è in grado di scaricare moltissima energia e ottenere uno shock bestiale sul testone di una cernia. A testimonianza di ciò a Santorini perdemmo una sola asta, per quel bel serranide sparato fondissimo da Luca, a fronte di decine e decine di catture concluse positivamente. E con quel tipo di asta mi capitò anche di prendere grandi dentici al libero, un paio. Il 95 era adoperato fuori tana, prevalentemente, in caduta, ma visto il suo favorevole rapporto di ingombri fu impiegato anche in spaccature lunghe. Con l’asta da 7 mm, invece, un arma letale per l’aspetto e tiri ai dentici. Il secondo mezzo d’offesa era il primo prototipo da me concepito, il primo di una lunga serie negli anni a venire… Con l’aiuto di un amico tornitore, in Piemonte a quei tempi c’erano tantissime officine meccaniche disponibili a effettuare lavori di tornitura e fresatura, mi ero fatto accorciare canna e serbatoio di circa 100 mm di un secondo SL 95, quindi avevo preparato un SL85, sempre munito di asta da 9 mm filettata e arpioncino a doppia aletta contrapposta terminale. Quei dieci centimetri in meno furono sfruttati soprattutto quando si doveva colpire rapidamente una cernia intanata, una lunghezza operativa azzeccata. Precaricato come l’SL 95 a oltre 25 atmosfere, canna 13, sfoderava prestazioni balistiche eccezionali e i tiri risultarono precisissimi. Il terzo e quarto pneumatico, l’SL70 e l’SL55, completavano la serie. Come asta su questi modelli montammo delle 8 mm a terminale filettato così potevamo intercambiare degli arpioncini speciali, dei prototipi da collaudare a doppia aletta corta e punta in carburo di tungsteno, un materiale sinterizzato durissimo, anti urto, creati da una ditta piemontese: gli arpioni Wolfram Carb. In alternativa, e li usammo con successo, una serie di spaccaossa a tricuspide, sempre dei prototipi recuperati da un signore che di nome rispondeva a Franco Gallini, il padre di Simone, che dopo qualche decennio diede origine alla ditta artigianale Sigal Sub. Il calamento di tutti i pneumatici era costituito da una treccia elicoidale di colore bianco, da due o tre millimetri, una sagola tecnica che avevamo reperito all’interno di una corderia torinese, un cavo usato sugli impianti degli skilift, in montagna. Nell’uso pratico, oltre a essere sempre individuabile, risultò tenacissima, non ne se spezzò o usurò nessuno, in tutta la vacanza greca. Particolare anche il sistema di collegamento con lo scorrisagola: il trecciato in alcuni fucili era cucito con filo da rete, nessun nodo grosso, per risultare un tramite più idrodinamico.

 

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