AMARCORD – Ep. 2

Zara Facebook)

L’Azzardo – 1983

C’era un periodo particolarmente favorevole per le prime vacanze estive in Corsica, un momento in cui il mare rivelava la temperatura dell’acqua sopra i 19/20 gradi centigradi e i branchi di dentici assommavano numerosi in vari punti della costa: coincideva con la fine del mese di giugno, gli inizi di luglio. Eh sì, grazie a un pre congedo militare provvidenziale di circa un mese (leva del 7° ’82), mi ero ritrovato in campeggio con la stessa compagnia di amici dell’annata precedente. In questo lasso temporale il ritrovarsi tutti insieme mi galvanizzava, mi motivava in modo speciale anche perché la sera riuscivamo a fare quasi sempre delle grigliate di pesce mitiche! La tecnica personale era migliorata, tutti i giorni uscivo a pescare e non potevo certamente lamentarmi grazie a un successo crescente in termini di prede catturate. Uno dei motivi era il fatto che mi tornavano alla mente continuamente gli esempi e gli insegnamenti dei miei maestri, i fratelli Bonassi, il loro modo di agire, di programmare le uscite in mare: come una rassegna fotografica mi ripassavo le azioni, le modalità di comportamento, le strategie tattiche. E cercavo di mettere tutto in pratica, nel migliore dei modi possibili, guidato anche dall’istinto che mi sentivo dentro. Il ritorno sulla spiaggia quando portavamo in secca la lancetta di Pier era un rito, l’accoglienza dei miei amici, e di qualche curioso, sempre festosa. Cosa desiderare di più per un ragazzotto smilzo di vent’anni? Un divertimento mitico, sportivo, un percorso che stava sviluppandosi oltre le più rosee previsioni!

La tana delle corvine non era il punto privilegiato delle mie escursioni, avevo trovato spacchi con diversi saraghi, gradini e dorsali dove iniziavo a capire come sparare i primi dentici, insomma la Corsica si rivelava giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, una palestra fenomenale di allenamento. Ma inutile negare che di tanto in tanto una capatina sul quel sito magico la effettuavo con piacere trovando sempre maggiore sicurezza. Un giorno con mare calmo decido di partire molto presto ma Pier non se la sentiva di accompagnarmi. Che fare? Ebbi l’autorizzazione a prendere ugualmente la barca e quindi optai per un’uscita solitaria. Da giovanotto imberbe il senso di libertà e la spensieratezza erano un qualcosa che mi rapiva nel profondo dell’anima e mentre navigavo a centro golfo mi sentivo particolarmente beato ma al contempo eccitato, poi dovevo cercare di far bella figura anche da solo, perbacco! Ero o non ero il pescatore della ciurma? Dove andare? Scopro un posticino non troppo fondo visitato nei giorni precedenti, tra i sassi catturo una grossa mostella, un paio di corvine e proprio sotto la barca afferro pure un polpo, gradito manicaretto per un’insalatina di mare gustosa. Esploro anche altri due siti con meno fortuna, però. A fine mattina decido di fare l’ultima vista. Prua diretta verso il posto mitico, quasi centro baia, leggermente spostato sulla destra. La tana miracolosa la conoscevo ormai benissimo. Le tre lastre contigue, coperte quasi completamente da alga avevano un’estensione globale di 5/6 metri quadrati, oltre il primo ingresso laterale che avevo scoperto la prima volta c’era una sorta di camino verticale che metteva in comunicazione gli spazi sottostanti. Per il resto era tutto chiuso a parte dei piccolissimi pertugi laterali dove filtrava un filo di luce. L’attrezzatura con cui mi trovavo meglio consisteva in due corti pneumatici, il 55 e l’inseparabile 70, entrambi gamma SL della Cressi Sub. Capitava di fare qualche colpo all’esterno con il lungo 95 ma la sicurezza dei due fuciletti era fantastica perché riuscivo a manovrare in spazi stretti con estrema precisione e letalità di conclusione; mai un pesce perso, tutti fulminati. La metodica acquisita in decine e decine di visite era consolidata. Solitamente dall’apertura laterale sulla destra catturavo qualche pesce all’aspetto ma poi il branco si nascondeva nella tana madre e bisognava quindi scovarli penetrando nel pertugio centrale, in verticale. A testa in giù entravo, piano piano scendevo sino a tre quarti di busto, lasciando le gambe e le pinne all’esterno, mi ruotavo su un fianco e sceglievo i bersagli raccolti sotto una volta abbastanza alta. Un colpo, un pesce. Tiri precisissimi, mai a caso, possibilmente sui pesci isolati o che stazionavano ai bordi, per non disturbare gli altri, numerosissimi… Poi l’arretramento lento, senza alzare polverino ulteriore, e in ultimo la risalita verso la superficie. Movimenti quindi eseguiti molte volte, sequenze assimilate, quasi routinarie.

-Preparo una nuova discesa, prendo ancora un paio di corvi e poi cambio zona – mi ripeto mentalmente. Mi ventilo adeguatamente, un’ultima boccata e poi giù. A pochi metri dall’apertura inizio a vedere lo sciame di un centinaio di corvine che, senza troppa celerità, ordinatamente, s’infila nei due anfratti. Che scenario da brividi, sempre! Con la mano mi appoggio cauto alla pietra per arrestare e gestire meglio la fase di fermata. Mi immobilizzo un istante, guardo giù nel tratto verticale, profondo circa un metro e mezzo: appena gli occhi dentro la maschera Piuma si abituano alla luce rada scorgo man mano più nette un fiume di schiene scure che fanno andirivieni tra i due passaggi principali. Entro pianissimo tra uno sciame di code e corpi sinuosi. Il ticchettio che ascolto tutt’intorno, che pare risuonare tra le pietre è una sorta di suono ammaliante, che un po’ distrae ma il tempo a circa 20 metri di profondità, la base un paio di metri sotto, va sfruttato in maniera intelligente. Come ho fatto decine di volte scivolo tranquillamente nel camino superiore, fucile aderente al corpo, e arrivato sul fondo del foro cerco di orientarmi e volgere l’attenzione verso l’interno della lastra più ampia. Lì c’è la concentrazione più grande di pesce. La rotazione del corpo non è del tutto agevole, il tramite è piuttosto stretto ma essendo magro e longilineo mi intrufolo senza quasi toccare le pareti. Le pinne della Dessault con pala lunga in plastica restano all’esterno, mi servono per trovare la strada a ritroso, in sicurezza. Nell’oscurità gli occhi scorgono le sagome, le labbra carnose chiare, ho solo l’imbarazzo della scelta perché le corvine sono ammassate e qualcuna mi passa addirittura davanti al viso per raggiungere un altro angolo della spacca. Punto un bel pescione sulla mia destra, lo miro sul testone e premo il grilletto. Il rumore di impatto pistone si ripercuote nella tana come un tuono. Cerco di afferrare immediatamente la generosa sagola di trecciato bianca e tirarla subito verso di me, come d’abitudine, ma mi accorgo che, stranamente, l’asta ha preso un po’ alto l’animale, non l’ho fulminato e istintivamente prolungo la mano per fermarlo, per non farlo sbattere ulteriormente. Si è sollevato un po’ di polverino, con il palmo coperto da un guanto in stoffa sottile spingo definitivamente la corvina contro il soffitto e la blocco. Mi sono spinto un po’ più avanti del solito nell’allungare il braccio, subito non me ne rendo conto. Porto la preda al petto, faccio per ritrarmi e fuoriuscire ma con i piedi non trovo spontaneamente l’uscita. Leggero panico. Ritento, abbandono il fucile e mi aiuto con entrambe le mani per indietreggiare. Le lunghe pale flettono, toccano, sbattono, puntano ma non trovano il canale del sifone. Sudore freddo, pensiero che si ferma, terrore. Cerco di ragionare ma non c’è più tempo a disposizione. Provo l’ultima, disperata soluzione, l’azzardo.

In fondo alla lastra, sulla destra, a circa 4/5 metri di distanza, dietro un leggero gomito da cui filtra una lucina fioca dovrebbe esserci la seconda apertura laterale, strettissima, quella scovata la prima volta. Tento il tutto per tutto, d’istinto. Appiattisco la pancia al fondo, percorro la tana per lungo, sino a vedere la finestrella a profilo vagamente triangolare. Non so come ho fatto ad arrivare fin lì, non mi capacito neppure oggi, pensandoci. Davanti a me lo spacchetto, mi tornano alla mente le parole della mia adorata nonna Ortensia che nei giochi d’infanzia mi diceva che se passa la testa in un foro passa tutto il resto. Detto fatto. Inserisco il capo tra le rocce ruotandolo verso la base più larga, ci entra, transita al pelo. Mi giro ancora un pochino, porto dentro anche le spalle, le spingo a forza. Un tentativo disperato. Sento la muta che gratta, che cede e si strappa ma le ossa passano, poi segue il resto. Sono incredibilmente fuori! Sgancio immediatamente la fibbia della zavorra e riemergo dopo un’apnea interminabile, lunghissima. Resto in superficie come un automa, un palloncino sgonfio, il boccaglio rimesso tra le labbra tremanti e il rumore dell’aria, dell’ossigeno che ventila. Il cuore, il respiro, per fortuna funziona tutto. Non so quanto tempo passo in stato di shock ma non mi capacito di cosa ho fatto, ci vuole un bel po’ prima di riavvolgere il film. Non so se pregare o piangere, faccio entrambe le cose. Riprendo lentamente coscienza della situazione, ho fatto un azzardo bestiale, potevo restare incastrato la sotto per sempre. Fine dei giochi. Raggiungo la barca, tiro su l’ancora e porto la lancetta quasi sulla verticale. A freddo decido di scendere nuovamente, l’unico modo per scacciare la paura, per vincere l’ansia, lo spavento, il terrore. Passa una buona oretta prima di riuscire a tranquillizzarmi, a prendere regolarmente fiato, a normalizzare le pulsazioni cardiache. Sono percorso da tremori incontrollabili, di tanto in tanto, che mi scuotono. È a quel punto che mi rendo conto di avere un bello sbrego sopra la spalla, un lungo squarcio: la muta in liscio spaccato non è passata indenne, troppo spessi quei 5 mm di neoprene tra il mio corpo e la roccia… Scendo incurante dell’acqua che mi entra copiosa e freddina sulla schiena, il peso dell’ancora compensa la spinta dell’espanso e riesco ad agganciare la cintura dei pesi. Riemergo subito, mi ci vuole un’altra oretta per rifare il tuffo a recuperare il fucile. Rientro nel camino, scivolo per un tratto finché intercetto il calcio bianco dell’SL 55. Lo traino a me, l’asta è pulita, la corvina non c’è più, si è liberata. Mentre osservo l’antro appoggio la mano per staccarmi dalla roccia e, all’improvviso, con notevole sbigottimento, a pochi centimetri dall’arto sbuca la testa di un grongo gigantesco! Mi becco un altro spavento incredibile! Riemergo in fretta, col batticuore! Se non mi è venuto in infarto oggi…! Probabilmente il pesce ferito, strappato, l’ha eccitato, ed è spuntato il bestione a cibarsene. Prendo il 70, metto il variatore in massima, controllo che l’arpione sia ben avvitato al terminale, lo sagolo alla boa segna sub e mi accingo a fare il tuffo. Arrivo sulla verticale, mi fermo e gli faccio la posta. Dopo qualche istante ecco il testone largo una spanna che fuoriesce spavaldo. Ho l’arma già puntata, devo solo premere il grilletto. Stump! Preso in pieno! Provo a estrarlo ma subito non ce la faccio. Per farvela breve lo lavoro a lungo pure agganciando la fune alla barca e aiutandomi con la spinta del motore, e alla fine di numerose immersioni riesco a estrarlo. Un’altra emozione intensissima! Dopo il capo, il corpo, che sembra non avere fine quanto è lungo! Ho perfino un po’ di paura a maneggiarlo! È enorme, più alto di me! Sarà una ventina di chili! Pulisco tutti i pesci, e sventro anche il grongo gigantesco. Poi faccio ritorno in campeggio. Stanchissimo, spossato. Non faccio parola dell’episodio accadutomi, lo svelerò dopo molto tempo ai miei amici.

Nel cuore un’esperienza che mi ha segnato. Tanto. Per gli anni a venire.

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