AMARCORD – Ep. 4

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Il Viaggio – 1986

Incredibile. A distanza di oltre quarant’anni ricordo. con enorme piacere, e nei minimi dettagli le avventure, gli avvenimenti, gli episodi vissuti nella realtà della pesca subacquea. Come fossero accaduti ieri! Il Viaggio che sto per raccontarvi, un viaggio per l’appunto con la “V” maiuscola, è stato il primo, il più intenso, il più emozionante, il più pazzo percorso stradale organizzato e compiuto nella mia esistenza. Indimenticabile, epico, il prologo di una vacanza lunghissima, quasi sei mesi passati a pescare sott’acqua, a spostarsi incessantemente tra le isole degli arcipelaghi della Grecia, da nord a sud, da est a ovest, il tutto nell’estate del 1986! A 23 anni d’età. Se la Corsica era stata per il sottoscitto una sorta di battesimo la Grecia stava per svelarsi un grosso salto di qualità, la cresima. E come fare a scordarselo?

In Corsica, durante la vacanza di inizio estate 1985, isola che frequentai inizio estate e inverno tutti gli anni sino ai primi anni 90, conobbi in campeggio un ragazzo di Milano, Luca, che era un appassionato di immersioni con le bombole ma non disdegnava qualche tuffo in apnea; un mio coetaneo, tra l’altro, classe 1963. Uscimmo varie volte a pesca, spesso suo papà, un mitico uomo di mare, di dura e vecchia scuola, ci faceva da barcaiolo. Stringemmo così una forte amicizia, trovammo una grande intesa, ci divertimmo molto e in occasione dell’estate successiva, in poco tempo, decidemmo di partire per la Grecia, tragitto da fare in auto, il percorso più breve dalle nostre città del nord Italia. Io avevo appena terminato la scuola per infermieri professionali, l’amico Luca stava dando l’ultima sessione di esami universitari. Combinammo questa “pazzia” in pochi giorni, anzi a dirla tutta  buttammo giù l’idea in poche ore! Rammento che gli telefonai, un pomeriggio di fine giugno, appena mi diplomai alla scuola ospedaliera dicendogli direttamente: “Luca, ho deciso di concedermi una vacanza in Grecia, basta studio e stress, vieni anche tu a farmi compagnia, si parte domani”. Dall’altro capo un breve silenzio, poi l’atteso: “Ok, vengo anch’io”. Non stavo più nella pelle, saltellavo con la cornetta in mano senza pudore. Organizzammo la cosa forse anche in maniera un po troppo istintiva, lo ammetto, ma ora, a sessantun’anni suonati: a quell’epoca nessuna esitazione, nessun dubbio solo una lieve e sana incoscienza giovanile. Ci accordammo rapidamente, senza quasi incertezze sul da farsi: avrei “messo” io la macchina, gran parte dell’attrezzatura, poi sarei passato a Milano per caricare Luca, e gli ultimi bagagli personali. Decidemmo di portarci appresso un minimo di equipaggiamento per non sovraccaricare eccessivamente l’utilitaria. Nella vettura, una mitica Fiat Uno ES (Energy Saving) motore a benzina 903 cm³, marce lunghe (c’era anche la 5ͣ !) e bassi consumi, abbattei i sedili posteriori e ottenni un piano di carico abbastanza generoso sia in lunghezza sia in altezza. La sorpresa fatta da mia nonna Ortensia, la mia adorata nonnina, qualche settimana prima, mi rese troppo felice: mi regalò per l’imminente e certa promozione a scuola nientepopodimeno che un fiammante due tempi Johnson 15 HP! Mica il suo nipotino poteva rischiare di restare in mare, eh? Infatti il fuoribordo italiano Carniti era in attesa di pezzi di ricambi introvabili, notizia del meccanico che mi curava la manutenzione e il suo pensionamento imminente. Il Mirage 3.10 aveva il pregio indubbio di essere completamente smontabile e riponibile in due sacche: uno per pagliolo in legno e chiglia paramezzale smontabile, uno per il tessuto gommato. Leggero e comodissimo da portare in giro. L’accoppiata con il 15 cavalli di nuova generazione al posto del glorioso e storico Carniti 9.5 era tanta, tanta roba! Nel bagagliaio della Fiat Uno ES stipai con cura: gommone, fuoribordo, serbatoio e tutti gli accessori. A dire il vero la macchina era pronta già da qualche giorno. Anche la cartografia specialistica non mi era sfuggita: in un negozio qualificato di Torino la mia amica Cinzia mi procurò una serie abbastanza completa di cartine dell’Ammiragliato Britannico, carte nautiche di diversi arcipelaghi delle isole greche, una mappa stradale della Jugoslavia comprendente anche parte della Grecia, e una di sola Grecia. Le esaminai per bene parecchi giorni prima di partire: a parte le batimetriche segnate in piedi e in braccia ca cui dovevo abituarmi ma che posti, ragazzi! Secche, rimonte, cigliate, scogli isolati, isole, isolette una panoramica da brivido, una più stuzzicante dell’altra. Naturalmente preparai il comparto fucileria con dedizione quasi religiosa; solo pneumatici, quattro Cressi SL, e tante aste di ricambio, 7, 8 e soprattutto le pesanti 9 mm. Si, proprio devastanti dardi di diametro 9 mm perché Paolo Bonassi, abilissimo cacciatore di serranidi, una sera, in negozio, mi intrattenne con una lunga serie di prodighi consigli e mi disse che per le cernie che avremmo incontrato di sicuro nelle acque greche non c’era di meglio! Per l’occasione preparai il mio primo ibrido, un SL85, ottenuto facendo accorciare dal tornitore di fiducia la canna e il serbatoio di un 95: l’arma si rivelò ideale, scelta azzeccata in pieno poiché riscontrai ottima maneggevolezza e micidiale letalità per insidiare e fulminare i serranidi greci sia in tana corte e profonde sia in caduta. Poi mi procurai un raffio artigianale, e realizzai un paio di “spaccaossa”, degli arpioni senza alette e con punta tricuspide che si rivelarono provvidenziali in tante situazioni. Tutti i fucili erano montati con sagola bianca a trama multi elicoidale, un filo speciale che trovai in un negozio di corderia torinese vicino al negozio Punto Sub e utilizzato in montagna per gli impianti di risalita noto per la sua tenacità, la resistenza alle abrasioni. Risultò una scelta eccellente. Poi doppia muta, doppie pinne, doppia maschera, doppia cintura di zavorra insomma doppioni di tutto l’equipaggiamento. La Uno ES non era stracarica di bagagli, segno che fummo parsimoniosi nel volume di carico complessivo.

Venne il giorno fatidico della partenza per il Viaggio. Mi diplomai il 28 giugno 1986, il giorno dopo, di buon’ora, assai prima dell’alba, dopo una lauta colazione, automobile con pieno di benzina e ben caricata di tutto il ben di dio, cartina stradale e un piccolo diario sul sedile (provvidenziale per tutti gli Amarcord in quanto si riportavano date e orari, e tante altre notizie, riferimenti), mi avviai! Ricordo esattamente il topico ed eccitantissimo momento: appena uscito dal garage di casa, un urlo liberatorio a finestrino abbassato squassò la notte torinese; poi una sgasata di accelleratore premuto a fondo con relativo rombo al limite del fuorigiri, e via, destinazione Milano! I primi 130 chilometri di autostrada nell’oscurità seguiti dalla percezione dei primi bagliori dell’aurora all’orizzonte ma sino al mio arrivo in Lombardia non mi accorsi neppure del tempo impiegato. Luca, intanto, mi aspettava, ansioso. Anche lui non aveva dormito molto per l’agitazione e la frenesia che ci pervase di brutto. Un bacio e una stretta forte forte a papà e mamma, e giù dal settimo piano, a rotto di collo, senza aspettare l’ascensore, con soli due borsoni: uno abbastanza piccolo con gli indumenti civili prettamente estivi, uno grande per l’attrezzatura apneistica! Salimmo insieme in macchina verso le sei, sei ed un quarto del mattino al termine della sistemazione bagagli nel cofano della Fiat Uno Es, e poi rotta diretta su percorso tutto autostradale verso Trieste, il confine con la Jugoslavia. In pratica pianificammo per bene il Viaggio insieme, mentre scorrevano i chilometri. Luca era stato con i suoi in Jugoslavia, qualche anno prima, con la roulotte. In auto avevamo acqua potabile e cibo fornito dai nostri genitori, l’itinerario stimato era quello di fermarsi quasi esclusivamente per fare benzina e arrivare in Grecia entro notte. Una tirata seria, all’incirca 1300 km attraverso la Jugoslavia (all’epoca era uno stato confederale unito), poi altri circa 600 in Grecia per il Pireo ma l’importante era attraversare la Jugoslavia per prima cosa. Il percorso in suolo italico si svolse regolarmente, mantenemmo una media di marcia abbastanza elevata in rapporto alla piccola cilindrata della vettura. Macinammo i primi 450 km in circa 4 ore e mezza. Passammo la frontiera a Sezana, senza problemi, prima di mezzogiorno ci trovavamo sull’autostrada verso Ljubljana. Il paesaggio sloveno man mano che ci addentravamo nel paese era caratterizzato da estese foreste e pascoli verdi, ma anche di nuvoloni grigi minacciosi all’orizzonte che dopo poco scaricarono sul nostro percorso una valanga d’acqua. Il timore di perdere la media, e di ritardare la tabella di marcia ci colse subito. Non entrammo a Lubljana, imboccammo la circonvallazione con la cartellonistica che indicava Zagreb. Peccato che l’autostrada terminò, era in costruzione all’epoca, ma comunque si trattava di un’arteria a scorrimento veloce. Dopo un’ora, sempre sotto la pioggia battente, passammo la frontiera slovena croata, ma quasi in prossimità della città incontrammo una coda d’auto lunghissima, a serpentone. Tutti fermi. Cosa era successo? Progredendo a passo d’uomo, sulla nostra sinistra, in lontananza intravediamo un camion con rimorchio ribaltato, mezzo sulla strada mezzo nel campo sottostante! La nostra fortuna fu che l’incidente era successo da un po’ e la scena che capitò dopo alcuni minuti ci lasciò di stucco, letteralmente basiti. Un rombo potente si mischiò agli scrosci incessanti di pioggia, li sovrastò e nel cielo grigio plumbeo apparve sorprendentemente un mastodontico elicottero a doppio rotore, forse un mezzo militare che imbrigliò l’autoarticolato e lo spostò dalla carreggiata! Sembrava un’operazione di guerra, non un soccorso stradale! In poco tempo la circolazione ripartì. Riprendemmo la corsa, l’orologio segnava circa le 14.30, nonostante non fosse ancora entrata in riserva la macchina ne approfittammo per fare benzina. Il tachimetro della Fiat Uno ES segnava quasi 700 chilometri, ottimo consumo la piccolina! Nell’area di sosta ci fu anche il cambio alla guida e Luca prese il mio posto. In tutto perdemmo cinque minuti. Dovevamo recuperare l’inconveniente del rallentamento dovuto all’incidente, normalizzare il ruolino di marcia quindi pedale ben premuto sull’acceleratore, occhi ben aperti, e avanti! Ora la via era di nuovo tutta autostrada, non esageratamente trafficata quindi si procedeva rapidi. C’era da effettuare il tragitto più corposo, un trasferimento di quasi 400 chilometri, Zagreb – Beograd. Dopo circa un’ora l’autostrada terminò e riprendemmo la strada a scorrimento rapido sino alla frontiera Croatia/Serbia, poco prima della cittadina di Slavonski Brod. Ci controllarono i documenti, ma fu un’operazione veloce. Eravamo nel cuore della Jugoslavia! Eravamo eccitatissimi, tutto si svolgeva per il meglio e che emozioni stavamo vivendo. Stimammo che continuando così, prima di notte fonda, saremmo arrivati in Grecia, eravamo più o meno a metà strada. Raggiungemmo Beograd (Belgrado), nuovamente favoriti dalla ripresa dell’autostrada. Attraversammo la capitale della Jugoslavia, con palazzoni a destra e sinistra, ore 18.30, circa, molte corsie a disposizione su questa grande arteria cittadina. Improvvisamente, notiamo, nel nostro stesso verso di marcia, quindi contromano, una grossa Mercedes chiara che ci punta sparata, procedendo pure a zig zag. Luca, d’istinto, sterza a destra, prendiamo una leggera imbarcata ma l’auto regge la correzione e sfioriamo per un soffio un frontale dalle conseguenze facilmente deducibili! Qualcuno dietro di noi strombazza il clacson ma ormai il pericolo è scampato, per ora… Che spavento, che valanga di adrenalina in corpo! Qui guidano piuttosto malamente, abbiamo visto anche qualche incidente sulla strada ma questo episodio, in piena città, sfiora l’assurdo. Luca è bianco come un cencio in viso, gli chiedo se vuole il cambio ma l’amico mi fa cenno di no. Passata la paura, e prestando ulteriore attenzione a chi ci circonda ci rimettiamo in corsia di sorpasso. Senza indugio, e con il tachimetro stabile sui 120/130 km/h puntiamo in direzione di Niṧ. All’incirca poco più di 220 km, ma fortunatamente tutta autostrada, finalmente. Questa alternanza di strade finite e non caratterizzava tutta la Jugoslavia ma a parte qualche rallentamento l’andatura era buona su tutta la rete stradale. Prima di arrivare alla cittadina serba, verso le 20, ci fermiamo in un grosso distributore a fare benzina. La piazzola di sosta è gremita di mezzi grossi e piccoli, di camion e furgoni. La Jugoslavia era percorsa da numerosi lavoratori turchi che tornavano a casa su questa arteria stradale. Un caos bestiale: cerchiamo di non perderci d’occhio, di controllare a turno la macchina. Vicino alla nostra Uno ES si ferma una moto, è un enduro di grossa cilindrata targato Trieste. Ci è parso di averlo visto anche in precedenza. Ci scambiamo i saluti, è una giovane coppia italiana che sta andando in Grecia! Anche loro per questa via. Ci dicono che ci hanno notati lungo il percorso ma le loro soste per il rifornimento sono state molto più frequenti e quindi non potevamo viaggiare insieme a lungo perché ci perdevamo di vista. Ma ormai non eravamo molto distanti dalla Grecia e chissà che questo tratto non ci vedesse più vicini durante il trasferimento. Mentre Luca resta in auto io cerco i servizi igienici. Mi avvio verso una casupola a lato del distributore di carburante vero, suppongo la toilette, quando incrocio un furgoncino fermo. Sono lavoratori turchi, noto dalla targa del mezzo. Si sobbarcano un lungo tragitto dai paesi nordici alla loro terra. Il conducente scende e apre lo scorrevole laterale e con mia incredulità scorgo una brandina letto posta sopra i bagagli stipati all’inverosimile sino al cielo del Ford con una persona anziana che s’intravede sdraiata praticamente poggiata contro al soffitto. Credo sia viva e vegeta la signora ma non noto un gran movimento. Non mi sono ripreso ancora dalla visione spettrale che giungo sulla porta dei bagni. Non ce la faccio ad entrare, mi blocco poco prima, a dire il vero un bel po’ prima. Il locale e un ampio settore di pavimento, di strada è allagato di urina, ci sono escrementi che galleggiano, e il liquame si sta riversando dall’ingresso. Una scena raccapricciante, da voltastomaco, apocalittica… Poco distante vedo un riparo dietro un albero e da maschietto posso espletare le mie funzioni escretorie impellenti senza vomitare. Raggiungo Luca, gli dico cosa mi è successo, anche lui si ferma coperto da un cespuglio mentre io faccio guardia all’utilitaria. E l’amico “la fa” con relativo patema d’animo… Ci stiamo imbarbarendo di brutto, sicuro. Dopo aver fatto il pieno di carburante (la moneta corrente è il dinaro ma accettano volentieri dollari o marchi tedeschi, la nostra lira non è gradita…) risaliamo in auto, ci scambiamo al posto di guida e riprendiamo il viaggio. Luca si addormenta quasi immediatamente, spossato. Io sorseggio da un thermos con dentro una lunga cannuccia in plastica un po’ di the, mi tiene sveglio: me l’ha preparato nonna Ortensia, credo con diverse bustine in due litri e mezzo d’acqua, bella bevanda concentrata. Oltrepassiamo Niṧ, termina nuovamente l’autostrada ma la strada è abbastanza larga e si può mantenere una media alta. Ore 22.30. Ora la meta è Skopje, Macedonia. E’ buio, solo i fari illuminano l’arteria stradale, guido cercando di restare concentrato. Il traffico è meno intenso, meno rischio, meno pericoli, in ogni caso. Dopo mezzanotte arrivo nella regione della Macedonia, sono quasi arrivato a Skopje, e riprendo un tratto di autostrada. Luca ronfa, la testa sopra una felpa poggiata al finestrino…Anch’io sono provato, mi fermo un attimo in una piazzola di sosta: l’aria è frizzantina, sgranchisco le articolazioni in una notte meravigliosamente stellata. Non siamo lontani dalla frontiera con la Grecia. “Su, Manu, ancora uno sforzo” – mi dico per farmi coraggio mentre l’amico non si è neppure accorto che ho fermato la Uno ES. Peccato che la strada non è più bella scorrevole, si è nuovamente ristretta, sembra una statale. Ai lati, ogni tanto si notano i tir fermi, gli autisti si riposano. Mancano ancora 170/180 chilometri alla meta. Riprendo la guida, i minuti corrono. Dopo circa un’ora e mezza di viaggio devo rallentare, ci sono lampeggianti all’orizzonte. C’è un incidente. Luca finalmente si sveglia. Mentre la polizia smista il traffico un’autoambulanza a sirene spiegate si sta allontanando: ci rendiamo conto che è successa una tragedia. Sotto il rimorchio di un articolato messo di traverso nei pressi di un incrocio ci sembra di scorgere, in un lampo, la moto enduro con targa TS. Atroce dubbio. Non possiamo fermarci, la polizia impedisce ai curiosi di rallentare e questa è l’ultima immagine che resta impressa nella mente di un Viaggio interminabile. Luca torna alla guida io mi appisolo in un dormi veglia strano, sono troppo teso. Penso ancora a quella terribile scena, forse un colpo di sonno, un’imprudenza? Verso le 3 del mattino arriviamo a Gevgelija, al confine con la Grecia, all’ultimo posto di frontiera con controllo dei passaporti. Passiamo. Ce l’abbiamo fatta! La tensione miracolosamente si affievolisce, ci abbracciamo sfiniti ma contenti di essere arrivati. In Grecia facciamo ancora una settantina di chilometri in direzione di Thessaloniki (Salonicco), siamo entrambi stanchissimi e puntiamo verso il golfo omonimo, usciamo dall’autostrada e trovata un’area di sosta vicino alla costa ci fermiamo, ci sistemiamo alla bene meglio sui sedili leggermente reclinati (più di tanto non si abbassano per il carico) e ci addormentiamo profondamente. Anzi crolliamo. La sveglia è di li a un paio d’ore, la luce del giorno che sta nascendo filtra dai finestrini, un pastore si avvicina con il suo gregge di capre, e una serie di belati ci danno la sveglia definitiva. Ci guardiamo in faccia, Luca ed io, non abbiamo una bella cera…Usciamo a prendere una boccata d’aria, il Viaggio è stato duro, particolarmente impegnativo. Il sottoscritto si è fatto circa 580 chilometri in Italia, Luca 450. Insieme 1250 km di Jugoslavia. E ora? Ci aspettano ancora 500 chilometri circa di Grecia, ma ce la prendiamo comoda, adesso, guardandoci intorno. Nella borsa frigo le ultime due fette di torta, una bella colazione con il profumo di Grecia, di mare non distante e un senso di libertà assoluta ci pervade. La stanchezza non si sente. La temperatura è abbastanza alta, c’è vento caldo su queste terre con poca vegetazione, aride, ma con un profumo particolare che fa capire di essere in un altro paese, un meraviglioso mondo. Verso le 9 riprendiamo il tragitto verso la capitale ellenica, il Viaggio si snoda senza inconvenienti, raggiungiamo in autostrada Larissa, poi Lamia e nel primo pomeriggio giungiamo ad Atene: la città è enorme, vastissima, e fa molto caldo per essere a fine giugno, un caldo bestiale. Acquistiamo un’anguria, la spacchiamo a metà e ci dissetiamo in un vicolo dove scopriamo un po d’ombra, seduti sul marciapiede con metà cocomero per uno, sembriamo due “barboni”. Bellissima e intensa sensazione! La calura è notevole, l’umidità alta, ecco perché in giro c’è poca gente. Ci dirigiamo verso il Partenone, lo stanno ristrutturando. Il posto trasuda di storia, ci sono molti turisti, e un gran traffico di taxi e auto, qui. Nel tardo pomeriggio raggiungiamo il Pireo, il porto ateniese dove c’è una notevole confusione di gente, in partenza, in arrivo, macchine che strombazzano, ingorghi. Ma un caos sopportabile per noi turisti alla buona. Controlliamo le partenze dei traghetti e la bella sorpresa è che sono disponibili molte corse giornaliere, anche di notte, per ogni isola  della Grecia, a tutte le ore! Scegliamo come prima stazione di fermata Paros, nelle Cicladi. Le carte nautiche dell’Ammiragliato Britannico sono particolarmente interessanti per questa isola, giusto iniziare da questo spot. L’avventura sta per avere il suo magico prologo. Ah! Dimenticavo: l’Avventura, con la “A” maiuscola!

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