
Paros – 1986
L’estate greca, appena iniziata, era già calda, a tratti afosa questa la sensazione provata di primo acchito, una grande differenza rispetto il clima lasciato al nord Italia.
Giunti nel porto del Pireo, inizio estate 1986 ci trovammo in mezzo a un bailamme di vita pulsante, un via vai continuo di gente, di traghetti e noi due, spaesati ma ancora euforici per il lungo viaggio intrapreso attraverso tutta la Jugoslavia, non sapevamo ancora bene cosa fare, dove andare, come muoverci. L’unica guida che Luca ed io avevamo tra le mani erano le cartine nautiche dell’Ammiragliato Britannico che, in previsione di consultazione pratica in gommone avevamo fatto duplicare in fotocopia e plastificare, una per una. A lato di una banchina trovammo un ufficio turistico che ci diede una sorta di brochure con orari, destinazione, prezzi dei traghetti in partenza. “Reperti storici” che ho gelosamente conservato e che ho in archivio; all’epoca non c’era internet, telefonini, la tecnologia si basava molto sul tradizionalissimo, internazionale e comune cartaceo. Ricordo un caos bestiale che faceva corollario a torme di gente che si accalcava attorno ai pontili di accesso, all’ingresso dei garage delle navi, dappertutto ci fosse uno spiazzo libero. Una Babilonia incredibile di colori, voci, profumi. Decidemmo dopo una breve consultazione e di un’idea maturata durante le conversazioni fatte durante il lungo Viaggio di visitare le Cicladi, l’arcipelago che ci aveva colpito per la moltitudine di isole (in greco –Nisos-) e isolette, sicuramente un buon posto per trovare pesce. Di Paros possedevamo la cartina nautica dettagliata e ci attirarono i salti di batimetrica ravvicinati, cigli che magari da pochi metri di fondo scendevano poco più al largo nell’abisso. Poi c’erano delle secche, rimonte anche a bassa profondità, franate, una promettente morfologia subacquea. Acquistati i biglietti per i passeggeri e la mitica Fiat Uno Es, in dracme, una moneta che rispetto alla nostra lira comportava un cambio vantaggioso. Se non ricordo male 1000 dracme valevano circa 6.000 lire, rapporto assai favorevole viste le nostre scarse risorse economiche da studenti. Ci imbarcammo sul traghetto verso il tardo pomeriggio, intorno alle 21. Il tempo stimato per arrivare sull’isola era di circa 7/8 ore, fu prenotato un posto ponte per spendere meno possibile, e appisolandoci sotto le stelle sbarcammo all’alba. La vista di Paros, del porticciolo di Paroikia alle prime luci del mattino fu un’impressione emotiva intensa, bellissima! Il paesino era tutto bianco con le persiane, le tende dipinte di blu intenso, con un corollario di tante barchette da pesca multicolore alla fonda. Un colpo d’occhio favoloso! Non faceva assolutamente freddo e appena scesi dalla nave con la nostra utilitaria azzurro fumo di Londra, una delle poche automobili private presenti sulla nave fummo colpiti da una serie di persone, di tutte le età, che tenevano in mano dei cartelli con la scritta “room to let”, stanze in locazione, in affitto. Erano disposti all’uscita, davanti alla banchina e intercettavano con questa spartana ma efficace modalità d’approccio i turisti. Che organizzazione! Ci accordammo con una signora che ci ispirava, un po’ in inglese, un po’ a gesti: ci spiegò di avere delle stanze libere ma che la sua dimora era un po’ fuori dal paese. A noi la proposta andava a genio, non eravamo appiedati. Ci mostrò una piantina semplice con la strada da seguire. Prima di raggiungere la sua abitazione ci fermammo a fare colazione in una taverna affacciata tra le barche da pesca. In quegli anni c’era già la presenza di molto turismo a Paros, soprattutto stranieri, tanti negozi e punti di ristoro a disposizione, ma l’accoglienza della popolazione locale a inizio luglio era strepitosa, tutti gentili e affabili con noi. Per fortuna la stagione era solo all’inizio e l’affollamento comune nel clou stagionale non c’era da nessuna parte. Il tormentone “Italiani e Greci stessa faccia stessa razza” lo imparammo in quella lunga vacanza. Raggiungemmo la kyría (signora) dopo un breve percorso, ci mostrò le stanzette pulite e ordinate dove avremmo soggiornato, situate in una costruzione apposita poco distante dalla loro casetta rurale e disposta in una serie di camerette singole contigue con pergolato d’uva sulla tettoia a fare ombra. C’era già una coppia di tedeschi, noi decidemmo di prendere posto vicino allo sgombero: avevamo bisogno di un posticino comodo e abbastanza ampio dove lavare l’attrezzatura e farla asciugare al nostro rientro. La vista sul mare da quella collinetta immersa nella macchia mediterranea ci fece capire di aver scelto bene la location. Ci appisolammo per qualche oretta, abbastanza stanchi, buttati sulle due brandine. Tutt’intorno una pace incredibile, un venticello che entrava dalle piccole finestre e non faceva avvertire eccessivo calore. Che beatitudine! Quando ci svegliammo doveva essere già passato mezzogiorno da un pezzo, fuori dalla stanza il sole picchiava, ma per fortuna la vite che da sopra cadeva davanti alle porticine blu faceva ombra e mitigava il caldo. Ne approfittammo per svuotare la vettura dai bagagli, l’attrezzatura, e per montare il Mirage. Preferimmo attendere l’indomani per saggiare il mare greco, riposati e con tutto l’equipaggiamento in regola. La sera facemmo benzina per il serbatoio del fiammante fuoribordo Jhonson, successivamente andammo a cena in una taverna e la piacevole sorpresa fu che con 1200/1300 dracme, in due, (8/9 mila lire) mangiammo in abbondanza. Tornati alla base ci addormentammo saporitamente, la prima dormita seria, su letti degni di questo appellativo, dopo tre giorni!
Le uscite in mare a Paros e Antiparos. Il sistema adottato per uscire con il gommone consisteva nel trasportarlo gonfio e pronto all’uso, sul tetto della vettura poi se trovavamo una spiaggia, un posto dove lasciarlo in secca la sera ne approfittavamo. Mai subiti furti, danneggiamenti di sorta. Ci eravamo portati dietro due sbarre porta tutto e delle cinghie che assolvevano perfettamente al compito. In questo modo potevamo partire da vari punti dell’isola anche perché la leggerezza del mezzo ci permetteva di alarlo un po’ dappertutto. La mattina seguente eravamo belli pimpanti e optammo per esplorare il versante ovest di Paros, davanti alla costa una seconda isola, Antiparos. La nostra cartina nautica mostrava che nel canale c’erano delle secche in pochissima acqua, la mappa dell’Ammiragliato Britannico segnava la profondità in braccia (circa 1,8 metri) e piedi (circa 3,4 centimetri), quindi noi facevamo la conversione approssimativa considerando la duplicazione del primo numero, sull’esempio 5 braccia, circa 10 metri di profondità scarsi. Con l’auto arrivammo nei pressi di una spiaggetta, nei pressi di Aliki, parcheggiammo la vettura e insieme portammo in acqua il gommoncino, poi il motore, il serbatoio e l’attrezzatura. Finalmente! Il mare greco ci colpì per la grande visibilità subacquea e la navigazione verso l’isola di fronte a noi sembrava fosse fatta su una lastra di cristallo. La carta nautica plastificata indicava già dei punti buoni nel canale. Purtroppo non avevamo ecoscandaglio ai tempi, di GPS neppure l’ombra quindi ci orientavamo a stima, con un righello e una squadretta. Come vedete in foto ci sono ancora i pallini rossi dei punti trovati, posti magici! In mare poche barche, e nessun pescatore subacqueo. Eravamo solo noi! Battemmo vari punti, Paros era una grande isola e c’era l’imbarazzo della scelta su dove concentrarsi a pescare.
La formula che avevamo ipotizzato con Luca era quella di visitare più isole possibili dell’Egeo visto che avevamo deciso di rimanere nel paese ellenico sino a dicembre. Quindi pescare qualche giorno su ognuna delle isole Cicladi, e poi spostarsi e così facemmo. Iniziammo a carburare di brutto, esplorazione con traino alternato spesso con Luca che guidava ed io in acqua, e i posti incantevoli che trovammo…li ricordo ancora adesso! E l’incontro con un ristoratore che ci chiese il pesce in cambio di vitto e qualche risorsa per l’alloggio fu una sorta di baratto, che accettarono in tutti i posti che frequentammo che consentì di divertici da matti per tutti i mesi di soggiorno! Non starò a raccontarvi le pescate sempre in hot spot nuovi, descriverò i momenti, le avventure, gli episodi che ci hanno maggiormente sorpreso. L’isola greca di Paros ci ospitò per circa 10 giorni.
La prima cernia e, l’urlo… Avevamo trovato ottimi fondali sia a Paros sia attorno ad Antiparos, posti di gran fascino e molto ricchi di pesce, tra l’altro specie ittiche mai viste prima di allora come i dotti, a esempio. A Paros rammento itinerari fatti sul versante a ridosso dei venti a iniziare dalle propaggini di tre isolette nel canale, un micro arcipelago nisidhes Pantieronisi; poi risalendo verso est la costa delle punte (akrotiri) Pirghios e Khoni e relativi scogli fuori con secche (ifalos) come nisos Dryonisi, nisos Makronisos. Una mattina con il nostro gommoncino esplorammo il versante sud dell’isola posta di fronte a Paros, nisos Andìparos. Passammo oltre l’isolotto chiamato nisos Dhespotikò, e tra questi e nisos Strongyli trovammo dopo una ricerca accurata, esclusivamente a “spaperinare”, e che ci portò via un paio d’ore buone, la secca segnata sulla cartografia nautica britannica, ifalos Khalika. Una rimonta che indicava 4/5 metri di cappello (2.2-2.4 braccia e piedi) e poco più in fuori scendeva a caduta ripida quasi a 95 metri (52 braccia)! Piuttosto lontana dalla costa e si rivelò spesso la consuetudine ricercare posti simili nell’arcipelago dell’Egeo per noi piccoli apprendisti esploratori subacquei ma la fortuna aiuta gli audaci, si racconta. Luca era davvero bravo a organizzare e pianificare la logistica, a indicare la direzione dell’esplorazione sottomarina, a guidare il mezzo nautico, io un po’ più bravino a trovare il pesce e a prelevarlo. Insieme ci trovammo come due fratelli. E pensate che senza strumentazione elettronica (GPS ed ecoscandaglio) si procedeva a stima metrica desunta dalla misurazione dei centimetri e dei millimetri rilevati sulla banda laterale della mappa dell’Ammiragliato britannico (a volte la sera dopo cena prima di crollare esausti si effettuava un po di pianificazione “geometrica”) e poi giù in acqua a paperino con cima dietro l’imbarcazione. E ci prendevamo spesso anche non subito ma era appassionante anche questo ambito! Non so se per bravura tecnica in misurazione cartografia o per la dea bendata fatto sta che ogni volta che si scovava un posto del genere era un’emozione indicibile, unica. Non potete immaginare quando dal blu intenso, sotto la prua del Mirage 3.10 comparve il chiarore dei massi di culmine. L’avevamo trovata, finalmente! Una gioia pazzesca, un brivido scuotente! Mentre Luca restò sul gommone per preparare l’ancoraggio io mi gettai in acqua. Sotto di me, sull’esterno i chiaroscuri di una frana spettacolare che scendeva con grandi blocchi verso l’abisso. Un waypoint da cardiopalma! Un paradiso! Presi l’ancorotto in mano, Luca me lo diede e lo depositai tra le rocce del sommo, senza fare eccessivo rumore. Una moltitudine di castagnole segnava la corrente, abbastanza sostenuta, un’evenienza che trovammo spesso nelle Cicladi. I pescetti, infatti, erano raggruppati a filo di una lama, a ridosso. Feci un tuffo con il 95 e asta tahitiana da 7 mm, sotto di me intravidi i primi dotti con la classica mandibola allungata, spesso scurissimi, quasi neri come livrea! Pescioni per me nuovi, mai visti prima d’ora e che solo a Paros imparai a conoscere e a insidiare. Poi c’erano dentici, dentici grossi ma non riuscii a portarli a tiro. La corrente in certi tratti era davvero forte, troppo intensa. Feci una discesa fonda a filo delle rocce e mentre cercavo un posto per fermarmi all’aspetto vidi sei o sette cernie grandi in candela sotto di me. Non perdetti la calma, restai concentrato. Continuai la caduta e sparai dritto sul testone di un bell’esemplare, prima che potesse girarsi. L’asta da 7 del lungo pneumatico, velocissima non le lasciò il tempo di reagire. Fulminata! Sbiancata all’istante. Ricordai in un flash che Paolo Bonassi si raccomandò di colpire le cernie sempre sulla testa, possibilmente frontalmente e tra gli occhi, svelandomi che così avrei risparmiato perdite di tempo e rischi. Aveva ragione. Che scena, che cattura in un posto del genere! Inutile dirvi che cacciata fuori la testa dall’acqua emessi un urlo fortissimo di soddisfazione! Poi recuperando il filo dal mulinello portai il serranide a galla. Non fummo ingordi, mai e dopo aver messo la cernia nel cestone con il sacco di iuta bagnata per tenere il pesce al fresco anche sotto il sole, decidemmo di tornare a riva. Ne avremmo approfittato per visitare Paros, e per riposarci un po’. Recuperammo il gommone, lo svuotammo, togliemmo il fuoribordo e poi, insieme lo rimettemmo sulle sbarre fissate al tetto della Uno. Raggiunto il nostro domicilio trovammo una sistemazione posticcia al pesce, lo mettemmo dentro una borsa da sub, e poi all’interno di un box all’ombra dove ci facevamo la doccia. L’intenzione, come fatto nei giorni precedenti, era quello di regalarlo al solito ristoratore dove la sera mangiavamo, il baratto. Non chiedevamo mai denaro, a volte ci dava qualcosa in più l’esercente in autonomia e lo tenevamo per le spese di alloggio. Il problema è che gli avevamo portato soprattutto dentici e saraghi, corvine e dotti in abbondanza ora c’era qualcosa di molto, molto più sostanzioso. L’avrebbe accettato? Da provare. Prima di sciacquare mute, pinne, e fucili ci stendemmo in branda, solo qualche minuto per riprenderci. Era inizio pomeriggio dei primi giorni di luglio del 1986. Ad un certo punto la quiete di quell’angolo di Grecia si interruppe di colpo squarciato da un urlo disumano: “Megálo psári! Megálo psári! Luca ed io usciamo dalla cameretta e guardiamo di sotto. Con voce rotta dall’emozione vediamo kyría, agitata, che indica con la mano tremante il contenuto del borsone sub. Il grande pesce, per l’appunto! Nella concitazione riusciamo a spiegargli che l’abbiamo preso noi, che siamo pescatori, che è morto e non morde. Scendo e lo mostro per intero, la signora pare essersi tranquillizzata un pochino. Gli offriamo la cernia, pesava oltre una quindicina di chili, ci farebbe piacere la prendesse. La signora si allontana e torna con il marito. Per farla breve accettano il dono e parte del pescione finisce direttamente in pentola, la sera stessa! Siamo stati invitati a cena, il cranio in brodo, una specie di zuppa, una leccornia. Il resto un po’ bollito e un po’ in insalata…un po’ meno buono. Nei giorni seguenti, tutte le mattine rimaste di soggiorno, quasi una settimana, colazione con una ricottina di capra deliziosa che kyría ci portava freschissima. Viziati! Poi, quando decidemmo di partire, ci presentò un conto della stanza affittata irrisorio, incredibile: circa 10 giorni per 5000 dracme… Cercammo di offrire di più ma i titolari furono irremovibili, e ci portarono pure un vassoietto di dolcetti. Ci salutammo abbracciandoci, un livello di ospitalità che ci fece letteralmente commuovere!
La tana di saraghi. Nelle nostre peripezie sportive non c’era la brama di prendere una valanga di pesci, venderli e farci tanti soldi. Questa metodica non ci è mai appartenuta. Andavamo in mare sportivamente, con il gusto primo di divertirci, di scoprire nuovi fondali, di godere di visioni davvero celestiali e poi di selezionare le specie ittiche più intriganti. Memorabile, a esempio, un branco di dentici smisurato incontrato fuori dalla punta a sud di Antiparos: per varie sere riuscimmo a catturarne diversi, tutti decisamente belli. Ma quella volta nel canale tra Paros e Antiparos, in pochi metri d’acqua, circa una decina, ci imbattemmo in una nuvola di enormi saragoni, una visione che mi è rimasta impressa a distanza di decenni! Forse disturbati dal rumore del fuoribordo, forse dalla nostra presenza li vedemmo infilarsi tutti in una tana. Una tana cieca. Si trattava di una lastra molto lunga, che puntava verso la superficie. Non era passante e i pesci non parevano neppure troppo scossi alla visione del subacqueo. Una spacca almeno lunga 6/7 metri con dentro un centinaio, almeno, di pesci enormi, tutti padelloni. Per un po’ sia Luca che io ci affacciammo alla crepa constatando che gli sparidi erano tranquilli, qualche esemplare faceva capolino anche fuori. Insomma se avessimo voluto avremmo fatto una carneficina. Con i nostri pneumatici SL55, 70 e l’85, iniziammo a sparare, non nel mucchio, ma ai saragoni defilati, a quelli un po’ più isolati. Ne prendemmo sei, sette a testa, poi ci fermammo. C’era un po’ di polverino ma il resto del branco non scappava, cercava rifugio al fondo che risultando chiuso non offriva buchi per la fuga. Eravamo contenti e appagati così; soddisfattissimi!
Il ritorno al punto di partenza fu un altro momento memorabile, e imparammo un’altra cosa, importantissima. Decidemmo di fare il periplo dell’isola di Antiparos, la circumnavigammo all’esterno ma senza preventivare il consumo di benzina del Johnson 15 cv e soprattutto non tenendo conto, non conoscendo bene la faccenda del vento estivo dominante sulle Cicladi, il Meltemi! Naviga naviga, onde alte su onde alte, ci accorgemmo ancora lontanucci dalla meta, di avere poca benzina a disposizione ma riducendo i giri del motore e moderando la velocità, arrivammo sani e salvi alla spiaggetta di Naxos mentre inclinavo ritmicamente il serbatoio per fornire al carburatore del fuoribordo i due scarsi centilitri di miscela residui che sciacquettavano tra le pareti e Luca che guidava a barra “pregando”! Che fortuna! Da quel giorno ci accordammo per evitare di affrontare le coste direttamente esposte al Meltemi (famoso vento che durante l’estate sull’Egeo soffia incessantemente dalle prime ore del mattino alle ultime della sera sull’asse Nord Est/Nord Ovest), e ci portammo sempre appresso una tanichetta di carburante di riserva.
E il primo dotto degno di questo appellativo? Una specie che non avevo mai visto e catturato prima d’ora ma che mi intrigava particolarmente. In Grecia dove insidiavo dentici capitava di vederli anche in più individui a gruppo sparso nel regno dell’acqua libera, delle correnti, dei fondali impegnativi. Ricordo pure che la tecnica per avvicinarli a tiro la soprannominai scherzosamente “spacca polmoni” vista la difficoltà di trovare l’attimo pagante anche dopo lunghissime apnee. Facevano scartare la mangianza più rabbiosamente rispetto i dentici ma risultavano più restii a seguirla, non erano presenti in branchi nutriti e si alleavano con la corrente per scappare, sembrava quasi conoscessero la distanza limite dalla gittata dell’arma impugnata e stessero costantemente fuori tiro, al sicuro. Individuai e presi tanti dotti, anche se valutare correttamente le dimensioni, il peso traeva in inganno (un difetto personale che mi faceva spesso stimare pesci più piccoli delle reali dimensioni possedute) ma una sera, su una balconata abissale fuori dalla punta sud di Antiparos, Akrotiri Petalidha, riuscii a ingannare e colpire di tre quarti, di muso, un dotto astuto che mi pareva essere sui 5/6 chili, bello grande, sontuoso, comunque. Uno degli animali più belli visti in quell’inizio di vacanza greca. Scorsi un ciglio con frana prospiciente, mangianza presente e concentrata, luogo speciale, ricco di sorprese. L’SL 95 con asta da 7 mm con doppia aletta molto filante e idrodinamica di sezione frontale in luogo di quelle filettate da 8 e da 9 mm forniva prestazioni eccezionali al libero e trasmetteva sicurezza. Non insagolai il bersaglio ma la legnata fu memorabile poiché la reazione e il tentativo di fuga non ebbero storia, lo fulminai, praticamente. Quando pesammo il serranide con dinamometro a molla, a pagliolo, restammo basiti, superò di poco gli 8 chilogrammi ed io, al momento del tiro lo stimai molto più “leggero” perché quando si avvicinò puntandomi era parecchio alto ma non spesso e voluminoso. Solito errore di stima. Rimase una cattura tra le più importanti del soggiorno a Paros, mi diede una soddisfazione particolare e che su pesci della stessa specie, di dimensioni più piccole, ripetei numerose volte nel corso delle nostre peregrinazioni nel mare Egeo. Per la cronaca a settembre, sulla rimonta fonda di in un’altra isola greca ne catturai uno nero come la pece che sfiorava i dieci chilogrammi, un autentico mostro, il dotto più grande preso in vita mia. Ecco, in quell’episodio mi ero reso conto di aver davanti alla volata del fucile due enormi dotti ma finché non pesai quello arpionato non mi resi conto dell’effettiva e reale stazza di quel magnifico e unico bestione.
E ripensando a quei primi giorni, alla scoperta come avventurieri atavici e indomiti di quei meravigliosi fondali non posso che fare mio un pezzo biblico del profeta Isaia (Is 60.1-6):…allora guarderai e sarai raggiante, palpiterà e si dilaterà il tuo cuore, perché l’abbondanza del mare si riverserà su di te…
Un solo rimorso, estendibile a quella lunghissima vacanza dell’estate 1986: non aver avuto la possibilità di possedere un piccolo apparecchio fotografico resistente alla salsedine, anfibio, da portarsi sempre in gommone e riprendere qualche bella cattura, e tra l’altro anche utilissimo per rilevare le mire a terra. A casa, in borsa, la compatta ed eccellente reflex Olympus OM-1, con rullino di diapositive da 36 pose, macchina fotografica che non potevamo portarci dentro il gommone poiché non avevamo comparti stagni a disposizione.